Ricordo ancora quella mattina di febbraio, quando mi svegliai un minuto prima della sveglia. La camera era ancora avvolta da una lieve penombra, ma dal finestrino si intravedeva il grigio pallido di una Milano invernale. La schiena mi faceva male per la notte trascorsa su un materasso troppo rigido, le dita delle mani erano leggermente gonfie, come sempre al risveglio. Rimasi seduta sul bordo del letto, aspettai che il senso di vertigine svanisse e solo allora mi alzai.
In cucina regnava il silenzio. Marco, mio marito, era già uscito per la sua corsa mattutina, una consuetudine che aveva preso negli ultimi due anni, da quando gli avevano consigliato di fare più attenzione al colesterolo. Accesi il bollitore, presi due tazze dal pensile e ne rimisi una via, perché lui beveva solo acqua al mattino.
Mentre lacqua bolliva controllai il cellulare. Nel gruppo familiare non cera nulla di nuovo, solo le foto del nipotino inviatesi quella sera. Il piccolo, con la divisa dellasilo, teneva in mano una piccola navicella di cartone. Un sorriso mi si dipinse involontariamente sul volto e sentii crescere dentro di me quel caldo sentimento familiare: è per loro che sopporto il traffico, i rapporti, le infinite riunioni.
Il mio lavoro da ventotto anni era il mio pilastro. Lavoravo nel reparto risorse umane di unazienda sanitaria di zona: iniziando come assistente, poi divenni impiegata senior. I volti dei medici e delle infermiere cambiavano, i direttori venivano e andavano, ma io rimanevo. Conoscevo i figli dei pazienti, i loro matrimoni, sapevo a chi indicare la procedura per il congedo parentale e a chi dare un piccolo sprone per non dimenticare di portare i certificati necessari.
Negli ultimi tempi le cose si fecero più dure. La carta fu sostituita da sistemi elettronici, i rapporti si moltiplicarono e i superiori chiesero sempre più tabelle e grafici. Brontolavo, ma imparai a destreggiarmi con i nuovi programmi, annotavo le password in un taccuino e tenevo ordinati i fascicoli sul desktop. Mi piaceva sentire di essere indispensabile: senza di me quel piccolo caos silenzioso sarebbe crollato.
Versai il tè, aggiunsi una fettina di limone e mi sedetti accanto alla finestra. Fuori, il custode spazzava la neve verso il bordo del marciapiede, poche auto attraversavano il cortile. Immaginai me stessa, dieci o quindici anni più avanti, a osservare lo stesso cortile dal balcone, avvolta in un accappatoio di lana. Accanto a me potrebbe stare il nipotino, più grande, che giocherà con i piedi e mi chiederà perché la neve fosse così grigia.
Questa immagine mi accompagnava da tempo. Lestate, il quadro si arricchiva della casa di campagna con il tetto stinto, i giardini dove, a malincuore, piantavo laneto e la sera mi sedevo al barbecue a discutere con Marco su quanta sale mettere alla carne. Linvecchiamento mi appariva una cosa comprensibile, seppur non particolarmente gioiosa, ma comunque parte della vita.
La porta dingresso si aprì con un clic e i suoni dei mocassini risuonarono nel corridoio. Marco entrò, annusando laria.
Di nuovo il tè senza zucchero? chiese, asciugandosi il collo con un asciugamano.
Il dottore ha consigliato di ridurre i dolci risposi.
Lui sorrise, versò dellacqua filtrata in un bicchiere. Le sue tempie ormai un po argentate e il viso dritto, più asciutto di un tempo, mostrano ancora quella mascella marcata che un tempo mi aveva affascinata. Ora, però, vedo più spesso la stanchezza e una leggera irritazione che cerca di nascondere.
Oggi tornerò tardi disse guardando fuori. Non contare su di me per la cena.
Unaltra riunione? chiesi. O i tuoi corsi di inglese?
Farcì una smorfia.
Non sono corsi, ma lezioni con un insegnante.
Capisco annuii. Con linsegnante.
Mi lanciò uno sguardo rapido, ma rimase in silenzio. Un nodo si formò nel mio stomaco: le loro frasi a metà, i non detti, avevano iniziato a riempire laria più di qualsiasi conversazione.
Mi vestii, controllai che la finestra della camera fosse chiusa e, con il gesto abituale, presi il mazzo di chiavi. Il metallo freddo mi scaldava il palmo; quelle chiavi mi accompagnavano da anni, passando da una borsa allaltra, dal portafoglio alla tasca, senza che ci pensassi. Casa, auto, casa di campagna, cassetta postale: il mio piccolo tesoro di sicurezza.
Il pullman era affollato. La gente fissava i telefoni, qualcuno sbadigliava, altri brontolavano a voce bassa per le fermate mancate. Stringei la borsa al petto e pensai alla giornata. A pranzo avrei dovuto chiamare mia madre, chiedere della sua pressione. Lei aveva settantatre anni, viveva in un quartiere vicino e rifiutava ostinatamente di trasferirsi più vicino a noi o al figlio.
Conosco tutti, ripetevo a me stessa. Farmacia, negozio, ambulatorio. Dove andrò?
Ogni giorno, accennando con un cenno, sentivo che quelle mura familiari, quei volti noti, quel percorso verso la fermata erano un ancora per il mio senso di appartenenza.
Allarrivo allambulatorio, lodore di candeggina e medicinali mi accolse. Un guardiano mi salutò con un cenno. Nelle corsie già si radunavano pazienti, qualcuno discuteva con la segreteria, altri guardava lorologio. Entrai nel mio ufficio, tolsi il cappotto, accesi il computer e andai a prendere lacqua bollente.
Il reparto risorse umane era ristretto: tre scrivanie, un armadio con fascicoli personali, una stampante antica che sbuffava carta. La collega, una giovane di circa trentanni, sistemava dei documenti in cartelle.
Buongiorno esclamò. Hai sentito la novità?
Quale? posai la tazza sul tavolo e mi sedetti.
Il direttore medico ha convocato tutti i capi reparto per le dieci. Dicono che parlerà di ottimizzazione.
La parola rimase sospesa come una brezza. Dentro di me si chiuse un nodo: lottimizzazione negli ultimi anni aveva significato solo una cosa tagli al personale.
Forse è solo un nuovo rapporto provai a fare finta di nulla.
Forse rispose incerta.
Il lavoro continuava. Medici arrivavano con domande sui permessi, io firmavo, inserivo dati, e il pensiero tornava sempre a quel termine pronunciato al mattino.
Alle dieci fui chiamata, insieme al capo del reparto, nella sala consiliare. Già erano presenti i responsabili di dipartimento e le caposala. Il direttore, un uomo di circa sessantanni, si avvicinò al podio, sistemò la cravatta e iniziò a parlare di riforme, di nuovi standard, di incremento dellefficienza. Ascoltavo come se fosse avvolta nella lana. Poi annunciò che gli organigrammi sarebbero stati rivisti, che alcune funzioni sarebbero state accorpate, che ci sarebbero state unità ridondanti.
Le decisioni definitive arriveranno entro un mese concluse. I capi reparto riceveranno le liste dei posti da eliminare.
La parola posti risuonò pesante. Il capo delle risorse umane lanciò uno sguardo verso di me, poi lo abbassò rapidamente.
Ritornata al mio ufficio, la collega aveva già sentito la notizia. Le sue parole furono velate di ansia.
Pensi che ci riguarderà? chiese, stringendo la penna.
Non lo so risposi. Già ora mancano le risorse.
Se accorpano con la contabilità non finì la frase.
Ricordai che lanno scorso, in un altro ambulatorio, avevano licenziato un collega del reparto, lasciando tre persone a gestire il lavoro di cinque. Ce la faranno, avevano detto.
Cercai di concentrarmi sul lavoro, ma le cifre si sfumavano. Prima di pranzo, bussai alla porta del capo delle risorse umane.
Un minuto? chiesi.
Lui annuì senza alzare gli occhi dallo schermo.
Hai sentito? incominciai.
Sì rispose brevemente.
Il nostro reparto mi bloccai.
Lui finalmente alzò lo sguardo, stanco.
Lucrezia, non ho ancora dettagli concreti. Aspettiamo istruzioni dallalto. Quando sapremo, ti avviserò.
Uscendo, mi sentii improvvisamente calda, nonostante il maglione leggero. Il numero della mia età mi balenò in mente: cinquanta. Non più quaranta, età in cui si poteva ancora osare, non più trentanni, tempo di rischi. Cinquanta.
Tornai a casa più tardi del solito. Il pullman era bloccato nel traffico; guardavo fuori, il paesaggio scivolava senza forme. Pensai a cosa sarebbe accaduto se mi fossero tagliati i posti: che lavoro avrei trovato? Chi assumerebbe una donna della mia età, con la mia esperienza? Un ambulatorio privato? Un istituto tecnico? Avrei dovuto ricominciare da capo, imparare nuovi programmi, inserirsi in un nuovo gruppo?
Marco arrivò verso le nove, indossando labito che riservava per gli incontri importanti. Si tolse la giacca, la appese con cura, poi si avvicinò alla cucina.
Hai cenato? chiese.
Ti aspettavo risposi. Vuoi scaldare la zuppa?
No, ho già mangiato disse, versandosi del tè. Oggi cè stata la riunione.
Anche noi replicai. Di tagli.
Lui alzò le sopracciglia.
Tu?
Non lo so ancora. Hanno detto che rivedranno lo staff.
Silenzio. Poi lui tirò fuori una notizia dal suo taschino.
Mi hanno offerto un contratto allestero, in Germania. Un progetto nuovo, serve esperienza. Due o tre anni.
Rimasi senza parole.
Sei andato a parlarne? chiesi.
Ho detto che ci penserò rispose. Ma è una grande occasione, sia dal punto di vista economico che professionale.
Il pensiero del denaro mi colpì più di ogni altra cosa. Lappartamento, le ristrutturazioni, laiuto al figlio per il mutuo, le medicine per la madre. Tutto dipendeva da quel forse.
Due o tre anni ripetei. E io cosa farò in quei duetre anni?
Marco guardò altrove.
Possiamo parlare di soluzioni. Potresti venire con me, lì hanno bisogno di personale per le risorse umane. Potrei informarmi.
Lo immaginai in una città tedesca, con lingue sconosciute, con cartelloni che non capivo, mentre cercavo di spiegare come richiedere un congedo. Immaginai la mamma sola, il figlio con la famiglia, il nipotino che mi chiedeva perché la non vedesse più. Mi vidi nei supermercati di Amburgo, a caccia di panna acida su scaffali con scritte incomprensibili.
Oppure rimani qui continuò. Lavori qui, resti con il nipotino. I duetre anni passeranno in fretta.
Il suo tono era sicuro, ma la voce tradiva un velo di incertezza. Stringeva la tazza con i denti.
E se non dovesse andare bene? chiesi piano. Se tu restassi?
Marco sospirò.
Non intendo emigrare, è un contratto di lavoro.
Anche un contratto di lavoro può essere prorogato dissi. Nuove opportunità, nuovi contatti. E qui
Non finii la frase. «Qui» racchiudeva tutto ciò che era familiare e pesante: le code in fila, le strade piene di buche, i prezzi che salivano, le notizie al telegiornale che ormai non suscitavano più speranza.
Il silenzio fu rotto da un rumore di sedia nella casa vicina.
Facciamo così, non oggi disse Marco alla fine. Sono stanco anchio. Ne parleremo nel weekend.
Annuii. Sentii una corrente dentro di me, ma non sapevo se fosse paura, rabbia o semplice stanchezza.
Quella notte non riuscii a dormire. Ascoltai il respiro di Marco, il rumore delle poche auto che passavano fuori. I pensieri saltellavano: il licenziamento, il contratto, la mamma, il nipotino, il mio corpo che ogni tanto si lamentava di ginocchia, schiena, pressione.
Al mattino chiamai il figlio.
Mamma, sono alla riunione sussurrò. Tutto ok?
Sì risposi. Ci risentiamo dopo.
Non volevo parlare di tutto quello che stava succedendo. Non sapevo nemmeno come dirgli che il papà aveva intenzione di andare via, che potevo essere licenziata. Come suonerebbe a chi sta appena uscendo dai debiti?
Il giorno in ambulatorio fu frenetico. Prima di pranzo, il capo delle risorse umane mi convocò di nuovo.
Lucrezia iniziò abbiamo ricevuto il nuovo organigramma. Un posto di senior sarà eliminato.
Il mio cuore si intiepidì.
Di chi? chiesi, anche se già sapevo.
Formalmente del capo reparto rispose, indicando il mio ruolo. Del tuo.
Formalmente? ripetei.
Posso offrirti la posizione di impiegata disse. È un declassamento, ma non licenziamento. Lo stipendio sarà inferiore.
Mi sedetti, le gambe si fecero di piombo.
Di quanto?
Indicò una cifra. Calcolai mentalmente: meno due mila euro, più altre riduzioni. Significava dover risparmiare ancora di più, meno aiuto per il figlio, meno soldi per le medicine della mamma.
Laltra opzione continuò è il licenziamento secondo le norme. Pagamento di tre mesi di indennità e iscrizione al centro per limpAlla fine, ho accettato il licenziamento, sapendo che la libertà di ricominciare sarebbe stata lunica vera ricompensa.





