Il dono segreto: storia di un destino

**Il Segreto di Antonio: una storia di destino**

Mi sono svegliato con il rumore della padella che sfrigolava in cucina, il bollitore che fischiava e l’aria impregnata dell’odore delle patate fritte. Era mio padre, Pietro, che come ogni alba silenziosa si preparava per la pesca. La vecchia moto, cigolante e lamentosa, già lo aspettava fuori, mentre lui, affaccendato, sistemava panini, thermos e controllava le attrezzature. Cercava di fare silenzio, ma alla fine aveva svegliato mia madre. Marina si sentiva male già dalla sera prima, ma aveva deciso di riposare. E Pietro, felice all’idea di una mattinata al lago, non sapeva che quella giornata avrebbe portato a tutti non riposo, ma una vera scossa.

Quando la moto se ne fu andata, Marina cercò di riaddormentarsi, ma all’improvviso si sentì peggio. Un dolore acuto le serrò la pancia, la testa le girava. Gridò:
“Antonino! Chiamami un’ambulanza, figlio mio!”

Io, ancora assonnato, corsi fuori dalla stanza, la vidi pallida e subito afferrai il telefono. Ma l’ambulanza non arrivava. Le davo da bere acqua, la coprivo con una coperta, mentre dentro di me cresceva un senso di disperazione. Allora, senza sapere cosa fare, l’abbracciai stringendola forte… e all’improvviso sentii la sua debolezza fluire dentro di me. Dopo un minuto, mia madre si raddrizzò, le labbra tornarono colorite:
“Figliolo, è come se mi avessero tolto tutto il male… come se non avessi mai avuto niente.”

Mi allontanai, respirando affannosamente. Nella testa mi martellava un pensiero: ancora. Ancora avevo “preso” su di me il dolore di qualcuno. Questo strano dono si manifestava in me fin dall’infanzia. Mi sembrava quasi che dentro di me vivesse qualcuno vecchio e saggio, che permettesse di guarire, ma al prezzo delle mie forze.

Intanto Pietro si era cacciato nei guai. In una curva del bosco, la moto si era spenta, e solo per miracolo un fuoristrada, sfrecciando a tutta velocità, non lo aveva travolto. L’autista, un uomo con una giacca costosa, saltò fuori spaventato, agitando le mani:
“Stai bene?! Fratello, scusami! Non chiamare nessuno, ecco, prendi questi soldi—comprati una macchina nuova!”

Tirò fuori due fasci di banconote, glieli ficcò in mano, risalì in macchina e sparì. La vecchia moto dovette essere rimorchiata. Al crepuscolo, l’auto arrivò a casa. Marina uscì sulla veranda, gli occhi pieni di lacrime:
“Pietro, dove sei stato?! Io qui stavo morendo, e tu?!… E il pesce, dov’è?!”

Lui, pallido, ancora stordito dagli eventi, strinse i soldi in mano:
“Questi… me li hanno dati per la vita, Marina. Oggi poteva finire tutto…”

Presto nel nostro cortile apparve un’auto usata ma solida. Pietro brillava come un bambino:
“Ecco, ora abbiamo qualcosa su cui viaggiare fino alla vecchiaia!”

Io, invece, rimanevo a letto. Mia madre borbottava:
“Nessuno mi dà una mano, uno sempre a pescare, l’altro sdraiato a fissare il muro! Dovresti sposarti, e invece fai lo scapolo!”

Ma presto mi ripresi. Mi chiamarono per sistemare un mobile in una casa nuova, e lì vidi Valentina. Stava semplicemente lì, a guardarmi lavorare. Non disse una parola, ma il suo sguardo era pieno di una dolce partecipazione.

Il giorno dopo tornai—a quanto pare mancavano delle viti. Montai le maniglie, e Valentina mi offrì un tè. Biscotti, silenzio, sorrisi. E all’improvviso dissi:
“E se facessimo una passeggiata insieme? Andassimo al cinema? Potrei presentarti ai miei genitori, e tu potresti presentarmi ai tuoi. E poi, magari… un matrimonio?”

Valentina, senza pensarci, rispose:
“Andrei volentieri.”

Così iniziò la nostra storia. I genitori erano felici, Valentina piacque a tutti. Mi promossero caposquadra, il lavoro andava bene, e presto scoprimmo che aspettavamo un bambino.

A volte ripensavo alle parole di nonna:
“Ci sono persone a cui manca la forza di vivere. Rimangono lì, senza ambizioni. Con quelli come te, Antonino, bisogna esserci, ma senza dimenticarsi di proteggersi.”

E ci provavo. Non dicevo a nessuno quanto fosse difficile dopo quelle “trasfusioni”. Tacevo quando mi chiamavano scapolo. E solo a me stesso ammettevo—se era un dono, allora lo accettavo. L’importante era che ora non ero più solo.

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