— Ecco, Gregorio russa di nuovo! — pensò infastidita Beatrice. La donna allontanò il braccio del marito su cui poggiava la testa e si girò dall’altra parte.
Dando un’occhiata al cellulare, notò che erano già le due di notte.
— Basta, non riuscirò più ad addormentarmi, e domani ho il turno di lavoro — borbottò tra sé Beatrice — sarò di nuovo assonnata come un ghiro. Certo, non devo alzarmi presto, ho il turno pomeridiano, ma comunque… Non ho più vent’anni, quando potevi ballare tutta la notte e svegliarti fresco come una rosa, né si tratta più di quelle serate romantiche sotto la luna, quando tornavi e invece di dormire rivivevi ogni parola, ogni sguardo scambiato con Gregorio. E il bello? Non ricordavi quasi nulla, solo qualche frase sparuta, e intanto sorridevi come una sciocchina innamorata. E il viso di lui, come in un film, scena dopo scena, così vicino e familiare… Quegli occhi grigi, buoni, sinceri, senza secondi fini, così nitidi nella memoria…
E intanto Gregorio, come se nulla fosse, emise un altro ruggito sonoro, continuando a russare beatamente senza svegliarsi.
— Che faccio? Forse dovremmo dormire in stanze separate la sera? — rifletteva Beatrice.
Senza sapere che fare, cominciò a ripensare a tutti i vecchi torti del marito e a inventarne di nuovi. Le sembrava di aver accumulato così tante lamentele da riempire un vagone merci e un carrello del supermercato.
Cosa la spingeva a quest’ora? Risentimento? Fastidio? Delusione? Chi lo sa?
— I figli sono cresciuti. Siamo rimasti solo noi due. Tutto sembra a posto, eppure qualcosa non va. Ma cosa? — questi pensieri ansiosi le bucavano la mente come un trapno smussato, e non c’era scopa abbastanza forte per cacciarli via.
Nel buio, Beatrice osservò il marito che dormiva. Russava placidamente, ignaro dello sguardo critico della moglie che, nell’oscurità, cercava ogni suo difetto per ingrandirlo, dimenticando però di dividere il risultato per zero. Anche se, da qualche parte nella memoria, le rimanevano i rudimenti di matematica: dividere per zero era impossibile. Ma negli occhi degli altri, si vede anche un granello di polvere, no?
— Gregorio è tutto bianco. E ha preso qualche chilo di troppo. Le rughe, come fiumi su una cartina geografica, gli solcano la fronte e tradiscono l’età, le difficoltà vissute insieme, le malattie e le avversità. Eppure, che bell’uomo che era!
— Ora non mi accoglie più con la stessa gioia di un tempo, quando torno dal lavoro. Prima, sentendomi arrivare, mi veniva incontro nell’ingresso, mi prendeva il cappotto, mi baciava… Ora non mi chiede nemmeno come è andata la mia giornata.
— E quando beve il tè, lo sorseggia rumorosamente, e questo mi dà ai nervi. Poi nasconde i vestiti sporchi appena torna, e io, non appena si addormenta, li lancio nella lavatrice. La mattina gli preparo abiti puliti, e lui si lamenta comunque! E poi mi dice:
— “Non ho ancora fatto in tempo ad affezionarmi alle camicie vecchie e tu me ne dai di nuove! Ridammi le mie cose!” — continuava a rimuginare Beatrice.
— Certo, mi ha fatto soffrire, e non poco. Abbiamo superato più di una crisi. Litigavamo e ci riappacificavamo, urlavamo e poi ricominciavamo. E poi la sua famiglia! Mi hanno fatto passare ogni tipo di torto. Credevano tutti che non fossi la moglie adatta per Gregorio. Persino al matrimonio abbracciavano e regalavano fiori solo a lui, mentre io ero lì, come un’ombra. Arrivavano al punto di contare i miei vestiti e gli stivali, dandomi della spendacciona! Eppure, a dire il vero, ho sempre lavorato, e i miei vestiti erano pochi e modesti! Una mia amica mi cuciva abiti con le stoffe più economiche, seguendo i modelli delle riviste. E Gregorio non mi difendeva mai, mi diceva solo:
— “Non dar loro peso, cara. È solo invidia! Sii più grande di queste chiacchiere da comari.”
— Ma il colpo più doloroso fu quando si ammalò nostra figlia, la piccola Elisabetta — continuò il suo monologo interiore Beatrice — una malattia seria. L’ho portata in ogni ospedale prima che i medici trovassero una diagnosi. Dovevamo fare degli esami speciali a Roma. Io non dormivo, ero terrorizzata all’idea di sentire la peggior notizia. E Gregorio? Mi sembrava così freddo, così distante. Stava in silenzio, non mi abbracciava, non mi diceva:
— “Andrà tutto bene, non preoccuparti.”
Non lo fece. Ci allontanammo. Mi sembrava di non capirlo più.
Quando tutto finì, piangemmo insieme, chiedendoci scusa e perdonandoci…
— Eppure, come mi corteggiava! E come ci siamo conosciuti… Camminavo per una strada sconosciuta, piangendo. Non volevo tornare a casa. Anche il cielo piangeva con me. Non avevo l’ombrello. Ero fradicia. Il vestito si era appiccicato alle gambe, rendendo difficile camminare. E il mio dolore?
Studiavo all’università. Era estate, tempo di esami. Le ragazze avevano deciso di comprare fiori e dolci per i professori. Servivano soldi: cinque euro a testa. Io non li avevo. Mia madre si rifiutò di darmeli, dicendo che non voleva farmi fare la leccapiedi e che era meglio se studiavo di più. Ma io ero già preparata.
La mia borsa di studio, persino aumentata per i miei voti, la davo a mia madre, che poi mi dava un euro ogni tre giorni per la mensa. Niente di più! Perché? Vivevo con i miei, avevo l’abbonamento dell’autobus, e i soldi extra — secondo i miei severi genitori — mi avrebbero solo portato a sprechi inutili. Ma non me la prendo con loro, mi hanno insegnato a risparmiare.
Insomma, camminavo, piena di lacrime e rabbia, chiedendomi dove trovare quei soldi. Il giorno dopo avrei dovuto darli alla rappresentante, e in tasca avevo solo due euro e trentacinque centesimi. Trentacinque centesimi che avevo risparmiato saltando il pranzo in mensa. Mia nonna, la mia alleata, avrebbe ricevuto la pensione solo una settimana dopo. Mi aveva già dato due euro, ma non poteva fare di più. Ero disperata. Non potevo chiederli in prestito a nessuno: tutte le mie amiche erano nella mia stessa situazione.
E poi, in quel momento, sopra la mia testa apparve un ombrello. Nero, giapponese, con il manico di legno.
— Signorina! Perché cammina sola per strada a quest’ora? E senza ombrello! Si può prendere un malanno e finire nei guai! — sentii una voce maschile.
— Ma che si permette! — protestai — Non sono affari suoi. Mi lasci in pace!
— Volevo solo offrirle il mio fazzoletto. È pulito. Almeno si asciughi le lacrime — disse pacato Gregorio.
Ma allora non sapevo ancora come si chiamasse.
Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto grande e bianco, a quadri blu. Quel fazzoletto è ancora nel nostro comò. Aveva un profumo delicato di colonia, e rimasi senza parole. O forse fu quel profumo a stregarmi?
Lo presi, lo lavai e lo conservaiE così, quel fazzoletto rimase per sempre il simbolo di un amore che, nonostante il tempo e le rughe, sapeva ancora asciugare ogni lacrima.