Il Fratello Sconosciuto

**Diario Personale**

Oggi è successo qualcosa che non dimenticherò mai. Ero in cortile, quando quel ragazzino prepotente mi ha strappato il gattino dalle braccia. “Ridammelo! Non fargli male!” urlavo, con le lacrime che mi riempivano la gola. Lo picchiavo con tutte le mie forze, ma lui rideva, stringendo quel corpicino fragile tra le mani. Allora ho perso la pazienza e l’ho morso sul braccio. Un attimo dopo, sono volata via, sentendo il sapore amaro del sangue in bocca. La faccia mi bruciava, e quando mi sono toccata il mento, la mano era tutta rossa. Ho chiuso gli occhi e ho gridato:

“Aiutatemi!”

Per qualche miracolo, qualcuno mi ha sentita. Il ragazzino ha urlato e io ho aperto gli occhi. Da dove ero caduta, vedevo poco, ma ho visto i suoi piedi, con quelle scarpe da ginnastica sporche, sollevarsi da terra. Era caduto, e ora strillava:

“Ma che fai?! Sei pazzo?!”

La sua voce non era più così arrogante come prima.

“Se ti becco ancora qui, te farò vedere io la pazzia! Vattene! E se la tocchi ancora, avrai a che fare con me, capito?”

La voce di chi mi aveva aiutato era calma, quasi annoiata.

Ho girato la testa. Un altro! Però, almeno lui mi aveva difeso. Ma ora? Dovevo scappare. Dov’era il gattino? Eccolo! Un batuffolo di pelo, immobile per terra. Mi sono avvicinata strisciando e l’ho toccato. Respirava! L’ho preso delicatamente e stretto al petto. Dovevo correre dalla nonna. Ma le gambe non mi obbedivano.

“Ehilà, piccola! Come stai? Madonna, che botta ti sei presa!”

Il ragazzo che si era avvicinato era più grande del mio aggressore. Un adolescente magro, con gli zigomi sporgenti, cercava di guardarmi negli occhi.

“Fammi vedere! Ti sei morsa il labbro?”

“Non so…”

“Va bene, vedremo. Riesci ad alzarti?”

Ho scosso la testa e ho ricominciato a piangere.

“Ehi, basta piangere! Se n’è andato e non tornerà. Se succede ancora, dimmelo, ok? E questo cos’è?”

Una mano sporca, con le unghie corte, si è avvicinata al gattino, ma io mi sono rannicchiata, cercando di proteggerlo, e ho pianto ancora più forte.

“Tranquilla, non lo tocco! Non aver paura!”

Ma non riuscivo a calmarmi.

Avevo insistito tanto per uscire da sola oggi. “Sono grande ormai, tra un anno vado a scuola!” Eppure, ero sempre l’unica a uscire con la nonna.

“Carolina, anche a me fa piacere passeggiare,” rideva nonna Lucia. “Io chiacchiero con le amiche, tu giochi. Che c’è di male?”

“Ma tutti sanno che tu mi controlli!”

“E allora?”

“Sono grande!”

“Ma certo che lo sei! Però, un occhio ci vuole.”

“Voglio andare da sola!”

Nonna aveva sorriso. “Parliamo con tua madre, d’accordo?”

“Lei non mi lascerà mai!”

“E chi te l’ha detto?”

Avevo abbassato la testa. Mia madre è severa. Lavora in ospedale, è chirurga. Lì serve disciplina, dice sempre. Ma con me è uguale: se dice no, è no. Però, forse valeva la pena chiedere.

Alla fine, mamma aveva acconsentito.

“Sei davvero grande, hai ragione. Ma dimostrami di meritare la mia fiducia. Prometti che non uscirai dal cortile e che starai dove la nonna può vederti dalla finestra?”

“Neanche sull’altalena vicina?”

“Carolina, dove sono le altalene vicine?”

“Nel cortile accanto…”

“E cosa ti ho appena detto? Pensa bene.”

“Non posso andarci.”

“Esatto. Allora perché chiedi?”

Avevo annuito, felice. Avevo mantenuto la promessa? No. Appena uscita, mi ero unita ad Alessia, la mia amica del terzo piano. Dopo aver saltato la corda, lei aveva detto: “Andiamo sull’altalena!”

“Io non posso,” avevo risposto, guardando verso la finestra di casa.

“Come vuoi! Dai, solo un minuto! La nonna non se ne accorgerà!”

Avevo resistito, ma poi la noia aveva vinto. Ero corsa dietro a lei.

Stavamo tornando quando, vicino al primo palazzo, abbiamo visto un gattino per terra. Com’era arrivato lì? Nessuna traccia della mamma.

“Piccolissimo! Ha appena aperto gli occhi,” aveva detto Alessia accarezzandolo. “Senza la mamma non sopravviverà.”

“Come lo sai?”

“Avevamo un gatto. Quando aveva i cuccioli, mamma mi ha spiegato tutto. Poi l’abbiamo dato alla nonna, e adesso abbiamo Puffo.”

“Chi?”

“Si chiama in modo complicato, tipo un faraone. Ma Puffo è più facile,” aveva riso Alessia.

Io avevo riflettuto e glielo avevo restituito. “Tu sai come aiutarlo.”

Ma lei aveva scosso la testa. “Puffo lo maltratterebbe.”

Poi era arrivata sua madre e se n’era andata. Avevo stretto il gattino, decisa a portarlo dalla nonna. Ma non ci ero arrivata.

“Ehi, mocciosa! Che hai lì?”

E poi era tutto andato male…

“Allora, ti sei calmata?” Il ragazzo era ancora lì.

“Perché?” gli chiesi.

“Perché cosa?”

“Perché mi hai aiutato?”

“Non dovevo?” rispose con una mezza risata. Poi mi tese la mano. “Su, alzati. Tua madre ti sgriderà di sicuro.”

“Non lei. Ma la nonna forse sì.”

Lui aveva sussultato. “Vivi con la nonna?”

“Sì. E con mamma. Mio papà non c’è più.”

“Ah.”

Avevamo camminato in silenzio. Alla fine, gli avevo chiesto: “E tu? Con chi vivi?”

“Con la nonna.”

“I tuoi genitori?”

“Solo mia madre.”

Lui si era fatto serio e io mi ero affrettata a dire: “Non importa!”

Mi aveva accompagnato fino al portone. La nonna mi aspettava.

“Carolina! Ma in che stato sei!”

“Nonna, non sgridarmi! Guarda!” Le avevo mostrato il gattino. “È vivo. Per favore, aiutalo!”

Prima di tutto, aveva controllato me. Poi aveva visto lui.

“E questo chi è?”

“Mi ha salvata, nonna! Sai come ha combattuto!”

“Un cavaliere! Bravo, ragazzo. Come ti chiami?”

Mi ero resa conto di non saperlo neanche io.

“Filippo,” aveva detto.

Da quel giorno, siamo diventati fratelli. Non di sangue, ma di cuore.

Oggi Filippo si è laureato all’accademia dei Vigili del Fuoco. È alto, fiero, e indossa l’uniforme con orgoglio. La nonna non c’era, ma io e mamma sì.

“Filippo! Congratulazioni!” gli ho gridato correndo verso di lui.

Mi ha sollevata e stretto forte. “Grazie, Carolina.”

“Ricordi quando mi hai salvata?”

“Eravamo bambini. Credo che tu abbia salvato più me, in realtà.”

Gli ho sorriso. “Prometto di non farmi salvare troppo spesso. Hai già molto lavoro.”

Abbiamo riso insieme, e poi l’ho trascinato via.

La giornataE mentre correvamo verso il futuro, tenendoci per mano, sapevo che non saremmo mai stati soli, perché avevamo trovato in noi stessi una famiglia che il destino non poteva portarci via.

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