**Il gatto che aspettò fino alla fine**
In una piccola caffetteria su via Garibaldi, nascosta tra vecchi palazzi di mattoni rossi e viuzze strette, cera appena spazio per pochi tavoli. La vetrina era modesta: qualche cornetto in una teca di vetro, delle mensole piene di libri lasciati da vecchi amici, e un grammofono che suonava jazz sommesso e malinconico, creando unatmosfera unica. Ma ciò che attirava più attenzione non era il profumo del caffè appena macinato, bensì un gatto grigio che se ne stava sempre nellandrone, fissando la porta.
*«Si chiama Venezia»*, diceva la proprietaria, Miriam, una donna dai capelli bianchi che le cascavano in morbide onde sulle spalle e dalle mani segnate dalla cura. *«E sta aspettando.»*
Molti pensavano che Venezia fosse solo uno di quei gatti randagi che occupano un posto e fingono di stare bene. Ma i vicini sapevano la verità.
Cinque anni prima, in una fredda giornata di pioggia, Miriam e suo marito Andrea lo avevano salvato. Il gatto era apparso sulla loro soglia, magro e con una zampa ferita, miagolando piano, quasi lamentoso. Andrea, senza esitare, lo aveva preso in braccio, avvolto in una vecchia coperta, curato la ferita e sistemato sul divano della loro piccola cucina.
*«Questo gatto resta con noi»*, aveva detto quella sera, guardando Venezia. *«Ha uno sguardo che ti fa sentire grato.»*
Da allora, Venezia era diventato lanima della casa. Dormiva tra loro due, si accoccolava sulle gambe di Andrea mentre leggeva il giornale, faceva le fusa durante le conversazioni serali e ogni mattina accompagnava il marito alla porta, quando lui usciva per lavoro. Sapeva quando qualcuno era triste e si avvicinava in silenzio, strofinandosi contro le gambe come un compagno che capisce senza parole.
Ma tutto cambiò quando Andrea si ammalò. La malattia fu rapida e crudele: un cancro che non lasciò scampo. Miriam chiuse il caffè per mesi, rimanendo accanto a lui, cercando di dargli forza. Venezia non si allontanava mai dal letto, come se capisse che il suo padrone aveva bisogno di lui. Ogni volta che Miriam usciva per la spesa o dal medico, il gatto rimaneva seduto vicino alla porta, fissando la strada come se aspettasse qualcosa.
Quando Andrea morì, Miriam sentì di aver perso una parte di sé. Riaprì il caffè, lavorando da sola, ma Venezia rimase nellandrone, silenzioso e fedele, continuando a guardare la porta.
*«Sembra che stia ancora aspettando lui»*, sussurrò Miriam a un cliente abituale. *«Ogni giorno alle cinque, quando tornava dalla passeggiata.»*
Gli anni passarono. Alcuni nuovi clienti non capivano perché il gatto fissasse sempre la porta, altri lo accarezzavano distrattamente. Venezia non chiedeva attenzione, non miagolava invano: aspettava e basta. La sua fedeltà divenne leggendaria tra i frequentatori del caffè, e persino i bambini del quartiere sapevano che, se volevano vedere un miracolo di pazienza, dovevano osservare Venezia.
Quellautunno, il gatto si muoveva meno. Dormiva di più, mangiava poco, i suoi grandi occhi verdi erano tristi e stanchi. Miriam lo avvolse nella sua vecchia sciarpa e gli sussurrò allorecchio:
*«Puoi riposare ora, se vuoi, amore mio. Andrea sarebbe fiero di te.»*
Era una giornata di pioggia, uguale a quella in cui lavevano trovato. Miriam sentì il freddo nellaria e, guardando nellandrone, vide che Venezia non si alzò. Morì nel sonno alle cinque, in silenzio, come un vero guardiano della casa.
Miriam chiuse il caffè per una settimana. Non voleva vedere nulla che le ricordasse la sua assenza. Quando tornò, mise una piccola targa di legno accanto allingresso. Cera scritto:
*«Aspettava per amore. E noi abbiamo imparato ad amare aspettando.»*
Da allora, i clienti portavano fiori, lettere e disegni di gatti, lasciandoli vicino alla porta. Qualcuno veniva solo per sedersi accanto alla targa e pensare alla pazienza e alla fedeltà. Quando pioveva, qualcuno sbirciava nellandrone, quasi aspettando di rivedere Veneziasilenzioso e fedele, il piccolo guardiano dellamore.
Miriam continuò a gestire il caffè. Spesso si sedeva vicino alla finestra, guardando landrone vuoto, ricordando come Venezia riempisse le stanze di calore, come facesse le fusa nelle sere buie quando si sentiva sola, come tenesse uniti i loro cuori quando ridevano con Andrea.
Molti venivano a raccontare le loro storie: come il gatto li aveva aiutati a superare un addio, una malattia, una perdita. Era diventato un simbolo di come lamore e la fedeltà possano esistere senza parole, nel silenzio, anche quando non vediamo più chi aspettiamo.
Miriam pensava spesso ad Andrea, guardando landrone vuoto. *«Sarebbe fiero di come Venezia ci ha tenuti uniti»*, diceva a se stessa. E in quei ricordi, sembrava che il gatto non se ne fosse mai andato. Aspettava soltanto. Aspettò fino alla fine.
Anni dopo, la piccola caffetteria su via Garibaldi non era più solo un posto per il caffè. Era un rifugio per chi cercava calore, per chi voleva condividere storie, per chi credeva che gli animali potessero insegnare qualcosa di vero: pazienza, fedeltà, amore.
E Venezia rimase nei cuori di tutti. Non sedeva più nellandrone, ma la sua presenza si sentiva in ogni angolo, in ogni ricordo, in ogni fusa, nel calore che la sua fedeltà aveva lasciato.
Perché ci sono animali che non scompaiono. Aspettano solo da un altro posto, silenziosi, fedeli, piccoli guardiani dellamore, che insegnano alle persone ad amare, aspettare e credere.
E ogni volta che piove su via Garibaldi, qualcuno si ferma, guarda nellandrone e per un attimo immagina Venezia: seduto lì, come una volta, che aspetta ancora.