Lo Sfaccendato, ovvero come mia figlia ha scambiato il buonsenso per l’amore
Quando la mia Beatrice ha portato a casa il suo cavaliere, il cuore mi ha fatto un tuffo poco piacevole. Qualcosa nello sguardo di quel giovanotto borioso, nel modo in cui si atteggiava, in quell’aria saccente, mi ha subito messo in allarme. Non un uomo, ma un pavone: tutto lustrini e pacche sulle spalle, con un sorriso da orecchio a orecchio, ma sotto quella patina di carisma c’era il vuoto. Irresponsabile, infantile, eternamente insoddisfatto. Cambia lavoro più spesso degli italiani cambiando telefono. Qui lo pagano poco, là il capo è “insopportabile”, altrove l’orario “non gli si addice”. Insomma, la colpa è sempre degli altri — mai sua.
Ho provato a far ragionare mia figlia. Piangevo, pregavo, spiegavo che un uomo deve essere un sostegno, soprattutto nel matrimonio. Ma Beatrice era accecata dall’amore e non mi sentiva. Suo padre, mio marito, ha alzato le spagne: “È grande, si farà le sue esperienze. Il nostro compito è esserci”. Anche io ho cercato di rassegnarmi. Dopotutto, la felicità di Beatrice viene prima dei miei presentimenti. Ma come fare a stare serena quando hai speso una vita a crescerla, a impegnarti per lei, e poi la vedi legarsi a questo fannullone senza ambizioni?
Per lei abbiamo fatto di tutto: si è laureata in un’università prestigiosa, le abbiamo comprato un appartamento, regalato una bella macchina. Tutto per garantirle una vita comoda. E lei invece, guarda un po’, a 25 anni sposa uno che non sa fare altro che lamentarsi.
Il matrimonio alla fine si è celebrato. C’ero anch’io, ma senza gioia — solo per amor suo. Poi è iniziata la vita insieme. Inizialmente sembrava tutto normale. Finché Beatrice lavorava, tiravano avanti. Ma appena è andata in maternità… è cominciato il delirio. Chiamate: “Mamma, potresti aiutarci con la spesa?” Io, ovviamente, ho aiutato. È la mia bambina, e so com’è essere una giovane mamma. Ma suo marito, dov’è?
Ben presto è diventato chiaro: il genero si è licenziato di nuovo. Non perché non trovasse lavoro. È che non voleva farlo. Passava le giornate sul divano, telefono in mano, con la scusa pronta. I suoi genitori vivono in un paesino della Basilicata, al matrimonio non sono neanche venuti, e di aiuto nemmeno parlarne. Tutto ricade su di noi.
Ho resistito a lungo. Sapevo che ogni critica al suo “amato” sarebbe finita in litigio. Ma alla fine ho esploso. Gli ho detto in faccia: “Luca, sei un uomo adulto e ti comporti come un adolescente. Non vuoi lavorare, non sostieni la famiglia. Allora a cosa servi?”
Dopo quella scena, Beatrice si è offesa, ha fatto i capricci. Luca, magicamente, ha “ritrovato la dignità” e ha trovato un impiego. Ma come al solito, è durato due mesi. Poi basta: “Ambiente tossico”, “capi insopportabili”, “stipendio da fame”. Beatrice, come un disco rotto, ricominciava: “Non capisci, mamma, era davvero terribile…”
Finché un giorno, arrivata da loro con la spesa, l’ho trovato di nuovo sul divano col telecomando, mentre mia figlia, occhiaie fino alle guance, cullava la piccola. E allora ho perso le staffe. Gli ho proposto: “Perché non provi a fare il fattorino? Hai la macchina, la patente…” Lui mi ha guardato come se gli avessi chiesto di spalare letame. “Non è un lavoro per me”, ha risposto. Io allora: “E badare alla bambina lo è?” Lui, senza vergogna: “Non è roba da uomini”.
E lì ho deciso. Una scelta dura. Impopolare. Ma l’unica possibile: “O ti rimbocchi le maniche e ti assumi le tue responsabilità, o non riceverai più un euro da noi. Non siamo un bancomat.” Beatrice ha pianto, urlato, ci ha accusati di crudeltà. “Lo amo!”, gridava. Già, e noi da tre anni “non capiamo”. Ma forse è ora che capisca lei.
Beatrice e la nipotina non le abbandoneremo mai. Le accoglieremo, sfameremo, aiuteremo. Ma Luca… Con lui abbiamo chiuso i conti. Non siamo la Caritas. Mio marito è stato irremovibile. Ha persino detto: “Meglio sola che con una palla al piede del genere”. Speriamo che Beatrice apra gli occhi. Almeno per la bambina.
Nel frattempo… Impariamo ad amare nostra figlia a distanza, senza farci divorare dalla frustrazione. Perché se non si accorge da sola della palude in cui si è cacciata, nessuno potrà salvarla.