**Il Giorno del Perdono**
L’ultimo autobus riportò Ginevra dal paese alla sua piccola casa in campagna. Aveva passato l’intera giornata correndo tra l’ospedale, a ritirare i documenti necessari, e l’agenzia funebre, poi di nuovo all’ospedale per consegnare un fagotto di vestiti alla morgue. Sua madre l’aveva preparato in anticipo. Era riuscita persino a tornare a casa un attimo e a mettersi un maglione nero.
Ginevra si sedette sulla sedia accanto al tavolo, allungò le gambe doloranti, troppo stanca per levarsi il cappotto. La casa era gelida, avrebbe dovuto accendere la stufa. Era partita all’alba, e ora era già sera. Guardò con aria assente le impronte sporche sul pavimento, lasciate dal dottore dell’ambulanza, dagli uomini che avevano portato via la mamma, dai vicini. Si rese conto solo allora che la porta di casa era rimasta aperta tutto il tempo, e fuori era ottobre. Non sapeva se si potesse lavare il pavimento in quel momento, ma per precauzione decise di lasciare tutto com’era.
Dietro la porta si sentirono dei passi. Ginevra balzò in piedi, sperando fosse Rachele, ma entrò invece la vicina, zia Nina, l’amica di sua madre.
«Ti ho vista rientrare. Posso aiutarti?»
«No.» Ginevra ricadde sulla sedia.
«È freddo qui. Ora accendo la stufa.» Zia Nina uscì e tornò poco dopo con una fascina di legna, affaccendandosi in cucina per preparare il fuoco. Per un attimo, a Ginevra parve che fosse la mamma, che la sua morte fosse solo un brutto sogno…
«Ecco, ora si scalderà.» Non era la mamma, ma zia Nina. «Non preoccuparti per il pranzo domani. I funerali sono alle undici, vero? Vai in città, io e Anna pensiamo a tutto qui. Rachele lo sa? Verrà?»
«Non risponde al telefono, le ho scritto un messaggio. Non so. Grazie mille,» disse Ginevra, muovendo a stento le labbra.
«Ma figurati, non siamo estranei. Io e tua madre eravamo più che sorelle.» Le parole suonarono accusatorie, e Ginevra se ne accorse, alzando lo sguardo sulla donna. «Vado, allora,» si affrettò a dire zia Nina, dirigendosi verso la porta. Afferrò la maniglia e si fermò. «Domani non chiudere a chiave, va bene?»
Ginevra annuì, mordendosi il labbro. Nella stufa scoppiettava la legna, il fuoco ronzava nel camino, e la casa sembrò riprendere vita. Quell’opprimente senso di solitudine che si era annidato tra le mura dopo la morte della mamma si attenuò. Si dice che nei primi giorni i defunti si sentano ancora vicini. Ginevra si guardò intorno, ma non percepì nulla.
La mamma era malata da tempo. Dopo la morte di papà, aveva perso ogni ragione di vivere, svanita in fretta. A volte Ginevra pensava che non volesse più resistere, che corresse incontro a lui. Era diventata cupa, silenziosa. Dopo il liceo, Ginevra si era trasferita in città per studiare ragioneria.
Tornava ogni weekend, fortunatamente il paese non era lontano. Portava generi alimentari, aiutava in casa. Nell’ultimo anno, la mamma era dimagrita visibilmente, diventando sempre più debole. Ginevra l’aveva portata all’ospedale e aveva sentito la diagnosi, crudele. La mamma l’aveva accolta con indifferenza, quasi con sollievo, certo non con dispiacere.
Quando la mamma non riusciva più ad alzarsi dal letto, Ginevra aveva preso un permesso e si era trasferita da lei. Sul lavoro aveva avvertito che forse avrebbe dovuto assentarsi ancora. Dopo un mese, la mamma era morta. Negli ultimi due giorni non aveva mangiato, né parlato, immersa in un torpore.
Ginevra continuava a parlarle, indifferente che potesse o meno sentirla. La sua stessa voce la rassicurava, attenuando la paura e la tristezza. L’ultimo giorno, Ginevra aveva chiesto perdono per tutto, supplicandola di non lasciarla sola, accarezzando la sua mano esanime.
Le aveva detto che Rachele sarebbe arrivata da un momento all’altro. Al nome della sorella, le palpebre della mamma avevano tremato, ma non aveva aperto gli occhi. Forse era già lì, nell’altro mondo, accanto a papà, dove aveva sempre desiderato essere?
Papà era un lavoratore instancabile, beveva poco, una rarità in paese. Molte donne, sole o con mariti alcolizzati, avevano cercato di sedurlo, invitandolo con scuse per farlo entrare in casa. Ma lui amava la mamma, non l’aveva mai tradita. In un paesino, certe cose non si nascondono.
Dalla paga portava sempre un sacchetto di caramelle a lei e a Rachele. Quanta gioia per quei piccoli regali.
Se n’era andato presto, anzi, era morto. E la mamma non si era mai ripresa da quella perdita. Ginevra aveva solo sette anni allora, Rachele ne aveva quindici. Appena finita la scuola, era scappata via per studiare in città, e non era mai più tornata.
Poco prima di morire, quando ancora poteva parlare, la mamma aveva chiesto a Ginevra di chiamare la sorella, pregandola di venire. Ginevra aveva chiamato, scritto, ma il telefono era spento o non rispondeva. L’ultimo messaggio lo aveva inviato quando la mamma era già morta, ma Rachele non aveva risposto. Aveva mentito alla mamma, dicendo che la figlia di Rachele era malata. Appena guarita, sarebbe venuta. La mamma ci aveva creduto? Ginevra non lo sapeva.
Ricordò quando un anno prima, dopo la diagnosi tremenda, aveva chiamato la sorella pregandola di venire. Rachele aveva reagito con freddezza.
«Mi ha cacciata, non ricordi? Non verrò,» aveva risposto duramente.
«Siete fatte della stessa pasta. Potrebbe morire, vieni, parlatevi, perdonatevi…»
«Non sono colpevole della morte di papà. Ero solo una ragazzina. E lei ci ha pensato, quando mi ha cacciata?» aveva alzato la voce Rachele.
«Non ti ha cacciata, ha detto cose che non pensava per la rabbia. Era devastata… Ti prego, vieni.»
«Non verrò.» E aveva riattaccato.
«Allora non verrà,» pensò Ginevra, alzandosi.
Si tolse il cappotto. In casa si stava facendo più caldo, presto sarebbe stato quasi afoso. Eppure aveva i brividi. «Sto forse per ammalarmi? Proprio adesso.» Accese il fornellino elettrico e mise a scaldare l’acqua per il tè.
Non aveva fame, ma una tazza calda l’avrebbe aiutata a scaldarsi. Rimase seduta in cucina, aspettando che l’acqua bollisse. La mamma puliva sempre tutto meticolosamente. Ora sul pavimento c’erano macchie, briciole, segni di sporco. A chi importava più della pulizia? Si alzò e pulì il tavolo con uno strofinaccio, come se la mamma potesse vederla e sgridarla.
Doveva decidere cosa fare della casa, ma senza Rachele non poteva. In città trovava tutto tutto l’anno, ma qui non poteva venire spesso. E dubitava che servisse qualcosa anche a Rachele. «Davvero nonAll’improvviso la porta si aprì, e Rachele entrò con un mazzo di fiori freschi, posandoli sul tavolo con un sorriso tremulo mentre le lacrime le rigavano il viso, finalmente libera dal peso di anni di silenzio.