Il giorno in cui sono andata in pensione, mio marito ha annunciato che mi lasciava per un’altra donna

Il giorno in cui sono andato in pensione, Ginevra mi ha detto che se ne va con unaltra.

Non sono svenuto, non ho alzato la voce, non ho fatto cadere il bicchiere. Mi sono semplicemente seduto sulla sedia ancora avvolto nel cappotto, con la borsa sulle ginocchia, e lho osservata sistemare lo spazzolino in una piccola trousse da viaggio. Aveva tutto pianificato. Aspettava. Io, ingenuamente, credevo di star per iniziare una nuova fase serena della nostra vita.

Negli ultimi mesi mi ripeteva: «Finalmente potrai riposare, te lo sei meritata». Prometteva weekend al casale di campagna, gite al lago di Como, colazioni lunghe senza la sveglia. E quel giorno, invece di una tazza di caffè e congratulazioni, ho ricevuto una frase secca, quasi una comunicazione di variazione di programma: «Me ne vado. Da tempo sto con unaltra. Ho voluto aspettare che finissi di lavorare per non complicarti la vita».

Per un attimo non ho capito di cosa stesse parlando. Nella mia testa riecheggiavano ancora gli auguri delle colleghe, le risate intorno alla torta, quel granello di zucchero che gli era rimasto sulla barba quando aveva morso la fetta e mi aveva strizzato locchio in segno di complicità. Non sono svenuto, non ho alzato la voce, non ho rotto il piatto. Mi sono solo seduto sulla sedia, ancora con il cappotto, la borsa sulle ginocchia, a guardare mentre infilava lo spazzolino nella trousse.

Aveva tutto programmato. Aspettava. Io, ingenuamente, credevo di entrare in una fase tranquilla.

Negli ultimi mesi mi diceva: «Stai per riposare, te lo sei meritata». Sognavamo weekend in agriturismo, escursioni al lago, colazioni pigre senza sveglia. E oggi, al posto del caffè e delle congratulazioni, ho sentito solo: «Me ne vado. Da tempo sto con unaltra. Volevo aspettare che ti ritirassi per non farti più problemi».

Per un attimo non ho afferrato le sue parole. Nella mia mente suonavano ancora i complimenti dei colleghi, le risate accanto alla torta, quel granello di zucchero sul suo mento quando si era tuffato nella fetta e mi aveva lanciato un occhiolino complice.

Era tutto così normale. E ora nulla. Il peggio è stato vedere che non sembrava addolorato, né disperato. Sembrava un uomo che, finalmente, ha scaricato un peso dalle spalle.

È uscito semplicemente. Ha lasciato le chiavi sul tavolo, non si è voltato, non ha chiesto se ce la farei da sola. Eppure tutta la nostra vita era ununica trama: bollette, decisioni, spese, weekend. Facevamo tutto insieme. O almeno così credevo.

Quando la porta si è chiusa, ho rimasto immobile per un lungo minuto. Era mezzogiorno, io ancora col cappotto e gli scarponcini, la borsa sulle ginocchia, incapace di muovermi. I pensieri giravano nella testa come una trottola impazzita, ma nessuno voleva fermarsi. Ununica domanda tornava come un boomerang: «È davvero così?»

Nei primi giorni mi dicevo che fosse solo una crisi, che sarebbe tornato a ragionare. Ho provato a chiamarlo, non ha risposto. Gli ho mandato un messaggio breve e freddo: «Se ti serve qualcosa, la casa è aperta». Nessuna risposta.

Una settimana dopo ho capito che era davvero andato via. Quella donna di cui parlava doveva far parte della sua vita da tempo. Nessuno lascia la moglie dopo trentacinque anni solo perché si è improvvisamente innamorato. Era un piano, latteso momento.

Ho iniziato a scavare nei ricordi, cercare segni. I suoi sguardi assenti a pranzo, le uscite «per pescare» al lago, il fatto che dormisse sempre meno accanto a me, a volte sul divano, a volte davanti alla televisione, forse parlando con lei.

Il colpo più duro è arrivato una settimana dopo, quando ho incontrato per caso unamica di vacanza. «Deve essere stato uno shock», mi ha detto con compassione. «Ma lui la frequentava già allora, vero?»

Lho guardata come se fosse impazzita.
«Di cosa stai parlando?»
Lei ha balbettato.
«Credevo lo sapessi»

Non ne sapevo nulla. Nessuno mi aveva voluto dire la verità. Vicini, amici, persino la cugina di Bologna lo sapevano tutti tranne me. Ero lunica a credere ancora nella nostra casa, nel nostro matrimonio, nella nostra quotidianità.

Quel tradimento non era il punto più doloroso, ma il sentirsi ingannato da tutti, non solo da lui, ma da un intero mondo che taceva. Per pietà? Per indifferenza?

Per mesi sono rimasto in sospeso. Non riuscivo a mangiare, a dormire. Al mattino mi svegliavo con leco di qualcosa di terribile, poi ricordavo, e tutto tornava a pungere, come se ogni volta si infilasse un coltello nello stesso punto.

Ho evitato di parlare con chiunque. Non rispondevo al telefono, non aprivo la porta. Solo una volta al giorno uscivo a passeggiare, sempre sullo stesso percorso, alla stessa ora, per non incrociare nessuno. Non volevo sentire parole di conforto, né quella frase che tutti usano: «Il tempo cura le ferite». Il tempo non guariva nulla.

Un giorno è arrivata una busta con una lettera a mano. Ho riconosciuto subito la sua calligrafia. Lho lasciata sul tavolo per unora, poi mi sono seduto con una tazza di tè e lho letta:

«So di non meritare il tuo perdono. Però volevo che sapessi che ho passato la maggior parte della vita con te e per molti anni sono stato davvero felice. Poi qualcosa è cambiato e non ho saputo dirti. Non perché non ti amassi, ma perché temei che mi avresti perso. Ora capisco che il rispetto mancato era solo verso me stesso. Mi dispiace che tu abbia dovuto scoprire tutto così.»

Non era una lettera damore, ma una di un codardo. Cera rimorso, ma non vera contrizione. È scappato. Quando non ero più il suo pilastro, la sua base, la sua quotidianità su cui appoggiarsi, è fuggito verso chi non conosceva le sue rughe, i suoi difetti, le sue dimenticanze.

Io lo conoscevo. Lavevo amato per anni. Davvero.
E quellamore è stato lunico a ferirmi più di tutti.

Col tempo ho ricominciato a vivere, non più in coppia, ma a modo mio. Con piccoli passi, senza progetti eterni, con un libro in mano, un giardino curato, viaggi con le amiche, senza dovermi piegare alle aspettative altrui.

Non dico di essere felice, sarebbe troppo semplice. Oggi, però, so una cosa: nulla è permanente. Né il lavoro, né il matrimonio, né lamore. Ma questo non significa che non valga la pena provarci.

Preferisco vivere ancora dieci anni consapevole e a modo mio, piuttosto che altri trentanni illudendomi di essere utile solo quando soddisfo le sue richieste.

Che la gente dica quello che vuole: che una donna sopra i sessanta debba pensare solo ai nipoti e alla minestra della domenica. Io? Sto per iscrivermi a un corso di ceramica. Da solo. Per me.

Non intendo più spiegare a nessuno il perché.

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