Viveva da solo.
La sua casa si ergeva isolata, un po’ distante dal paese vero e proprio, oltre la collina dove una volta si snodava una strada dal nome curioso: Appendicite. Sette case, disposte a semicerchio sul pendio, come guardiani assonnati.
Quando iniziò quella diaspora paesana, quando la gente si riversò in città, abbandonando la terra, dimenticando le radici, la strada si svuotò. Le case crollarono, furono smantellate per farne legna, marcite… Solo una rimase in piedi.
Una. Come un dente estratto, rimasto nella bocca di una vecchia centenaria.
Lì, da sette anni, viveva Domenico Rossi.
Anche se… a essere precisi, non proprio da solo. Accanto a lui c’era Girasole. Un cane, nero con macchie bianche, zampe corte, la coda ad anello buffo, orecchie a triangolo e occhi come tizzoni. Capiva tutto, ma non parlava. Un vero amico. Una vera persona, solo nella pelle di un cane.
In città, Domenico aveva una famiglia. Una moglie fredda, estranea. Le parole bastavano appena per un mese. Una figlia, ormai adulta, che un tempo si aggrappava a lui—non faceva un passo senza di lui—ma ora era sparita dalla sua vita, come per magia. Era nato un nipote, ma lo aveva scoperto non dalla figlia, ma da un vicino di passaggio.
Quando il cuore gli diede un serio avvertimento, il medico si limitò a scrollare le spalle:
– Avresti bisogno di silenzio, di natura. Hai un posto così? Se vuoi, posso consigliarti un sanatorio.
Domenico pensò alla casa dei suoi genitori. La risposta fu semplice:
– C’è un posto. Lì c’è tutto ciò che è mio.
Lo disse alla moglie, per dovere. Lei si toccò la tempia, come per dire: hai perso la testa.
Non discusse. Partì da solo.
Tagliò le erbacce. Risistemò il tetto. Riface il portico. Ricostruì il camino, chiamando un vecchio amico con cui, da bambino, aveva tagliato ortiche come fossero briganti. La casa riprese vita. La casa respirò.
A volte, gli sembrava di sentire sua madre schioccare la lingua in un angolo della stanza, e suo padre che grugniva pesantemente, ma con approvazione.
Imbiancò il camino, dipinse il portico di rosso ciliegia. Mise delle ringhiere intagliate. Che bellezza.
Superò l’inverno. Scaldò l’anima. Né la moglie, né la figlia—nessuna telefonata, nessuna lettera. Solo in primavera qualcuno gli lasciò Girasole. Da allora, erano in due.
L’estate era libertà. La mattina, andavano nel bosco. Domenico con un cesto, Girasole al suo fianco. Parlavano senza parole, con la mente. Domenico, come gli aveva insegnato sua nonna, salutava il bosco: un inchino, chiedendo il permesso. Così era stato educato: non sprecare parole al vento, perché te le porta via, e la coscienza non le riprenderà mai.
Domenico era taciturno. Forse per questo la famiglia non aveva funzionato—era troppo silenzioso, troppo onesto.
E tutto sarebbe continuato così, se un giorno non fossero arrivati… gli altri.
Arrivarono in macchine costose, con documenti, progetti. Il suo terreno era il più bello. Panoramico.
La casa era un ostacolo. L’unica rimasta.
– Domenico, su, capiscici. Ti daremo un appartamento, un indennizzo. In città, tutto comodo. — Sorridente, voce suadente, una pacca sulla spalla.
Domenico scrollò via la sua mano. Lo fissò:
– Questa è la casa dei miei antenati. Qui sono nato. Qui morirò. È il mio luogo del cuore.
– Beh… se è così, — il sorriso svanì — allora andremo per vie legali.
Tribunale. Documenti. Sentenza. La casa sarebbe stata demolita.
Domenico tacque. Ma i suoi occhi… cambiarono. Non furiosi. Non sconfitti. Come se venissero da un altro tempo. Dove l’erba arrivava alla vita, la minestra bolliva nella pentola di ferro, e suo padre spaccava la legna…
Una mattina, un trattore ruggì davanti alla casa. Al volante, un ragazzo del posto. Giovane.
Domenico uscì. Senza rabbia. Senza parole. Si sedette sulla panca. Girasole non si vedeva.
– Zio Domenico, mi dispiace… è un ordine… — il ragazzo tremava.
Domenico lo guardò.
– Fai pure, figliolo. È il tuo lavoro. Ma sappi una cosa: sotto il portico c’è Girasole, quello che ti ha salvato dalla pozza ghiacciata, ricordi? Cinque anni fa. Prima lui. Poi io. Perché io vado in casa.
Il ragazzo impallidì a vista d’occhio. Poi spense il motore e se ne andò.
Due giorni dopo, la gente iniziò ad avvicinarsi alla casa. Gente del posto. Chi con un secchio, chi con una pala. Tra loro, anche il ragazzo del trattore. Chiamarono la televisione. Alzarono il polverone. Salvarono la casa.
Il progetto fu rivisto. La strada fu deviata.
Ora Domenico vive sereno. Un apiario. Un alveare. Miele. Girasole sempre accanto, passo dopo passo.
E poi, all’improvviso—lei.
Sulla soglia, una valigia in mano. Nell’altra, la manina di un bambino di cinque anni. Dietro di lei, una macchina vecchia come la strada stessa.
– Ciao, papà… — Elena. La figlia. — Siamo qui. Ci accogli?
Aprì il cancello in silenzio.
Il bambino—Simone—si strinse alla mamma. Non aveva mai visto il nonno. Domenico si chinò, lo sollevò:
– Andiamo nell’orto. Vedi quella mela? TiralIl sole tramontava sui colli toscani, e per la prima volta in tanti anni, Domenico sentì che il suo cuore aveva finalmente trovato pace.