Lui viveva solo.
La sua casa si trovava isolata, un po’ distante dal vero e proprio paese—oltre la collina, dove un tempo si snodava una stradina dal nome curioso: Appendicite. Sette case, disposte a semicerchio sulla salita, come guardiani assonnati.
Quando iniziò quella migrazione di paese—quando la gente si riversò nelle città, abbandonando la terra, dimenticando le radici—la strada si svuotò. Le case crollarono, vennero smantellate per la legna, marcirono… Una sola rimase in piedi.
Una sola. Come un dente strappato, rimasto nella bocca di una vecchia centenaria.
E lì, negli ultimi sette anni, visse Gabriele Rossi.
Anche se… per essere precisi, non viveva del tutto solo. Accanto a lui c’era Trespolo. Un cane, nero con macchie bianche, zampe corte, la coda a ricciolo, orecchie triangolari e occhi come carboni. Capiva tutto, ma non parlava. Un vero compagno. Una vera persona. Solo nella pelle di un cane.
In città, Gabriele aveva una famiglia. La moglie—estranea, fredda. Poche parole bastavano a riempire un mese. La figlia ormai adulta, una volta attaccata al padre—non muoveva un passo senza di lui, ma poi era scomparsa dalla sua vita, come per magia. Un nipote era nato, ma lo aveva scoperto non dalla figlia, bensì da una vicina di passaggio.
Quando il cuore iniziò a fargli male—davvero male—il medico si limitò a scrollare le spalle:
—Le servirebbe silenzio, natura. Ha un posto così? Se vuole, posso consigliarle un sanatorio.
Gabriele pensò alla casa dei suoi genitori. La risposta fu semplice:
—Sì, ce l’ho. Lì—c’è tutto ciò che è mio.
Alla moglie lo disse—per formalità. Lei si toccò la tempia: insomma, pensava che avesse perso la testa.
Non discusse. Partì da solo.
Falciò le erbacce. Rifoderò il tetto. Ricostruì il portico. Sistemò la stufa—chiamò un vecchio amico, con cui da bambino aveva tagliato ortiche come fossero banditi. La casa riprese vita. La casa respirava.
A volte gli sembrava di sentire, in un angolo della stanza, il linguacciare di sua madre, mentre suo padre emetteva un grugnito pesante ma approvante.
Imbiancò la stufa, dipinse il portico di rosso ciliegia. Mise le ringhiere intagliate. Una bellezza.
Superò l’inverno. Scaldò l’anima. Né la moglie, né la figlia—nessuna telefonata, nessuna lettera. Solo in primavera qualcuno gli lasciò Trespolo. Da allora—erano in due.
Estate—libertà. Al mattino—nel bosco. Gabriele con il cesto, Trespolo al suo fianco. Parlavano senza parole, con la mente. Gabriele, come gli aveva insegnato la nonna, salutava il bosco: un inchino, chiedeva il permesso. Così gli avevano insegnato: non sprecare parole al vento, perché poi nemmeno la coscienza le riprenderà.
Gabriele era taciturno. Forse per questo la famiglia non aveva mai funzionato—troppo silenzioso, troppo onesto.
E così sarebbe continuato. Ma un giorno, al paese arrivarono… altri.
Vennero in macchine costose, con documenti, progetti. Il suo terreno—il più bello. Panoramico.
La casa era un ostacolo. L’unica casa rimasta.
—Gabriele Rossi, su, capisca. Le daremo un appartamento, un indennizzo. In città, tutto civile.—Sorriso untuoso, voce oleosa, una pacca sulla spalla.
Gabriele scrollò via la sua mano. Lo fissò:
—Questa è la casa dei miei avi. Qui sono nato. Qui morirò. Questo—è il mio luogo di forza.
—Be’… se è così—il sorriso svanì—allora passiamo per il tribunale.
Tribunale. Carte. Sentenza. La casa—da demolire.
Gabriele tacque. Ma i suoi occhi… cambiarono. Non arrabbiati. Non sconfitti. Come se venissero da un altro tempo. Dove l’erba arriva alla vita, la minestra bolle nella pentola, e il padre spacca la legna…
Una mattina, un trattore ruggì davanti alla casa. Al volante—un ragazzo del posto. Giovane.
Gabriele uscì. Senza rabbia. Senza parole. Si sedette sulla panca. Trespolo non si vedeva.
—Zio Gabriele, mi perdoni… ordini…—il ragazzo tremava.
Gabriele lo guardò.
—Fa’ pure, ragazzo. È il tuo lavoro. Ma sappi: sotto il portico c’è il mio cane, Trespolo, quello che ti tirò fuori dal fosso, ricordi? Cinque anni fa. Prima lui—poi io. Io entrerò in casa.
Il ragazzo impallidì. Poi spense il motore e se ne andò.
Due giorni dopo, la gente iniziò ad avvicinarsi alla casa. Gente del posto. Chi con un secchio, chi con una pala. Tra loro—anche quel ragazzo col trattore. Chiamarono la televisione. Sollevarono un polverone. Salvarono la casa.
Il progetto fu rivisto. La strada la aggirò.
Ora Gabriele vive in pace. Apiario. Un alveare. Miele. Trespolo accanto, passo dopo passo.
E all’improvviso—lei.
Sulla cancellata. Una valigia in mano. Nell’altra—la mano di un bambino di cinque anni. La macchina dietro di lei—scassata, come la strada stanca.
—Ciao, papà…—Elena. La figlia. —Siamo venute da te. Ci accogli?
In silenzio, aprì il cancello.
Il bambino—Pietro—si strinse alla mamma. Non aveva mai visto il nonno. Gabriele si chinò, lo sollevò:
—Andiamo in giardino. Vedi quella mela? Strappala. Ma piano.
Poi—cucina. La casa profuma di erbe, funghi secchi, cera.
—Papà… perdonami. Ero arrabbiata. Ferita. Pensavo che ci avessi abbandonato. Poi… sono diventata madre. E ho capito tutto. Ho lasciato mio marito. Non avevo un posto dove andare. Siamo venute da te. Se vuoi, solo per l’inverno.
Lo abbracciò. Come quando era piccola.
—Tutto si sistemerà. Sistematevi.
Passarono l’inverno. In primavera, Elena timidamente:
—Papà, mi hanno proposto un posto a scuola… vicepreside. Te lo immagini?
—Accetterai?
—E tu mi compri un alveare? Personale. Insegno scienze.
Lui sorrise. Quella sera, sotto l’albero—c’era un alveare nuovo.
—Nonnino!—Pietro raggiante. —E a me?
—Tutto è tuo.
Estate—bosco. Trespolo, Pietro. Elena a casa—ha iniziato a imbiancare.
Tornano—la casa splende. Vetri lavati, cornici ridipinte, con fiori disegnati sopra. Elena?
—Come hai fatto a fare tutto?…
Arrivano al cancello. Trespolo si aggira intorno a qualcuno…
—Nonnino! C’è la nonna!
Gabriele si bloccò.
—Ciao, Gabriele…
—Ciao, Fiorenza…
—Sono venuta da voi… Posso?
Elena sorrise imbarazzata:
—Mamma è venuta da sola. Abbiamo sistemato tutto, lei… ha dipinto le cornici.
—Nonna, queste le hai fatte tu?
—Sì…—sorride.
La sera bevono il tè sotto il tiglio. Silenzio.
—Starete bene qui…E il mio cuore, qui dentro, batte ancora.