Il matrimonio forzato con un mendicante: un destino sorprendente per una giovane non vedente

**Diario di Elena**

Non ho mai visto il mondo, ma ne sentivo il peso in ogni respiro. Nata cieca in una famiglia che dava molta importanza alle apparenze, mi sentivo come un pezzo fuori posto in un puzzle perfetto. Le mie due sorelle, Isabella e Sofia, erano ammirate per la loro bellezza radiosa e la loro grazia elegante. Gli ospiti si scioglievano in complimenti per i loro occhi scintillanti e le loro maniere raffinate, mentre io rimanevo in silenzio nell’ombra, quasi invisibile.

Solo mia madre mi trattava con dolcezza. Ma dopo che se ne andò, quando avevo appena cinque anni, la casa cambiò. Mio padre, una volta così gentile, divenne freddo e distante. Non mi chiamò più per nome. Mi indicava come se persino riconoscere la mia esistenza fosse un fastidio.

Non mangiavo con la famiglia. Ero confinata in una stanzetta sul retro, dove imparai a muovermi nel mio mondo grazie al tatto e ai suoni. I libri in braille divennero la mia via di fuga. Passavo ore a seguire con le dita i puntini che raccontavano storie lontane dal mio raggio d’azione. La mia immaginazione divenne la mia migliore compagna.

Il giorno del mio ventunesimo compleanno, invece di una festa, mio padre entrò nella mia stanza con un pezzo di stoffa e una frase secca: «Ti sposerai domani.»

Rimasi paralizzata. «Con chi?» chiesi a voce bassa.

«Un uomo che dorme fuori dalla chiesa del paese,» rispose. «Sei cieca. Lui è povero. Mi sembra giusto.»

Non ebbi scelta. La mattina dopo, in una cerimonia breve e senza emozioni, mi sposai. Nessuno mi descrisse mio marito. Mio padre mi spinse verso di lui e disse: «È tua ora.»

Il mio nuovo sposo, Matteo, mi guidò verso un carretto modesto. Viaggiammo in silenzio a lungo, fino a raggiungere una piccola casetta vicino al fiume, lontana dal trambordo del paese.

«Non è molto,» disse Matteo con gentilezza, aiutandomi a scendere. «Ma è sicura, e qui sarai sempre trattata con rispetto.»

La casetta era fatta di legno e pietra, e sebbene semplice, era più accogliente di qualsiasi stanza che avessi mai conosciuto. Quella prima notte, Matteo mi preparò una tisana, mi offrì la sua coperta e dormì accanto alla porta. Non alzò mai la voce né mi trattò con pietà. Semplicemente si sedette e chiese: «Che storie ti piacciono?»

Sbatté le palpebre. Nessuno me l’aveva mai chiesto prima.

«Che cibo ti rende felice? Quali suoni ti fanno sorridere?»

Giorno dopo giorno, mi sentivo rinascere. Matteo mi accompagnava al fiume ogni mattina, descrivendomi l’alba con parole poetiche. «Il cielo sembra arrossire,» diceva una volta, «come se gli avessero sussurrato un segreto.»

Mi raccontava il canto degli uccelli, il fruscio degli alberi, il profumo dei fiori selvatici. E ascoltava. Davvero. In quella piccola casa, circondata dalla semplicità, trovai qualcosa che non avevo mai provato: la gioia.

Tornai a ridere. Il mio cuore, un tempo chiuso, si aprì lentamente. Matteo canticchiava le mie canzoni preferite, mi narrava storie di terre lontane e, a volte, stava semplicemente in silenzio con la mia mano nella sua.

Un giorno, seduti sotto un vecchio olivo, gli chiesi: «Matteo, sei sempre stato un mendicante?»

Rimase in silenzio un attimo. Poi rispose: «No. Ma ho scelto questa vita per una ragione.»

Non aggiunse altro, e io non insistetti. Ma un seme di curiosità era stato piantato.

Settimane dopo, mi avventurai da sola al mercato del paese. Matteo mi aveva insegnato la strada con pazienza. Camminavo con calma e sicurezza, quando una voce mi sorprese.

«Cieca, ancora a fingere di fare la casalinga con quel mendicante?»

Era mia sorella, Sofia.

Mi tirai su dritta. «Sono felice,» dissi.

Lei ridacchiò. «Non è neanche un mendicante. Davvero non lo sai?»

Tornai a casa confusa. Quella sera, quando Matteo rientrò, gli chiesi con fermezza: «Chi sei veramente?»

Si inginocchiò accanto a me, prendendomi le mani. «Non volevo che lo scoprissi così. Ma meriti la verità.»

Inspirò profondamente. «Sono il figlio di un conte.»

Rimasi senza parole. «Cosa?»

«Ho lasciato quella vita perché ero stanco di essere visto per il mio titolo. Volevo che qualcuno mi amasse per quello che sono. Quando ho sentito parlare di una ragazza cieca messa da parte, ho voluto conoscerti. Mi sono presentato in incognito, sperando che mi accettassi senza il peso della ricchezza.»

Rimasi ammutolita. La mia mente ripercorse ogni momento, ogni gentilezza, ogni istante condiviso.

«E ora?» chiesi.

«Ora torni a casa con me. Nel palazzo. Come mia moglie.»

La mattina dopo, arrivò una carrozza. I servi si inchinarono al nostro passaggio. Io, stringendo la mano di Matteo, sentii un misto di paura e meraviglia.

Nella dimora elegantissima, la famiglia e il personale ci osservavano curiosi. La moglie del conte si avvicinò. Matteo parlò con chiarezza:

«Questa è mia moglie. Mi ha visto quando nessun altro lo faceva. È più autentica di chiunque io abbia mai conosciuto.»

La donna mi guardò, poi lentamente mi abbracciò. «Benvenuta a casa, figlia mia.»

Nelle settimane seguenti, imparai i ritmi della vita nel palazzo. Creai una sala di lettura per i non vedenti e invitai artisti e artigiani con disabilità a condividere le loro opere. Divenni un simbolo di forza e gentilezza.

Ma non tutti mi accettarono. C’erano sussurri. «È cieca.» «Come può rappresentarci?»

Matteo li sentì tutti.

Durante un ricevimento, si rivolse agli ospiti: «Non accetterò il mio ruolo se mia moglie non sarà pienamente rispettata. Se non la accogliete, me ne andrò con lei.»

Un sussurro percorse la sala.

Poi la moglie del conte si alzò. «Da oggi, sia chiaro: Elena è parte di questa casa. Disprezzarla significa disprezzare la nostra famiglia.»

Seguitò un silenzio. Poi, applausi.

Quella sera, restai in piedi sul balcone della nostra stanza, ascoltando il vento portare musica attraverso il giardino. Un tempo ero una ragazza lasciata nel silenzio. Ora, la mia voce era ascoltata.

E anche se non potevo vedere le stelle, sentivo la loro luce nel cuore—un cuore che aveva finalmente trovato il suo posto.

Una volta vivevo nell’ombra. Ora, brillavo.

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