In una grigia serata di novembre a Rivarolo, un paesino avvolto dall’odore di umidità e foglie cadute, Enrico sostò davanti alla vetrina di una vecchia bottega di antiquariato. Gli orologi, piccoli ed eleganti, con quadranti consumati e lancette sottili, sembravano sussurrare storie del passato. Gli ricordarono i suoi nonni, i giorni in cui, ancora ragazzino, osservava affascinato il movimento degli ingranaggi sotto la lente d’ingrandimento. Enrico fissò quelle lancette che avanzavano lente e all’improvviso capì: non voleva affrettarsi. Non ora. Non verso il luogo che avrebbe segnato la fine di diciotto anni della sua vita. Dentro di sé, aveva già deciso, ma fuori c’erano solo la pioggia grigia, le pozzanghere fangose e un freddo che gli faceva male al cuore.
Enrico entrò in tribunale con un quarto d’ora di ritardo. La sua quasi ex moglie, Lucia, era seduta accanto alla finestra, le mani posate su una cartella di documenti. Il suo volto era calmo, ma le dita che accarezzavano nervosamente l’angolo di un foglio tradiscono la tensione. Non lo guardò, non era arrabbiata: aspettava, come se quella non fosse la fine della loro storia, ma un semplice appuntamento di lavoro. Enrico ricordò quando, anni prima, avevano montato insieme i mobili del loro primo appartamento: litigando, ridendo, bevendo tè per terra. Quel ricordo lo trafisse come una scheggia di vetro, e lo ingoiò in silenzio, senza trovare le parole.
La giudice fu rapida come il vento fuori dalla finestra. Domande, firme, timbri: tutto durò meno di dieci minuti. Come se diciotto anni insieme—vacanze, litigi, notti passate sotto una vecchia coperta—potessero essere ridotti a poche formalità.
Sulla porta, Lucia disse:
—Non dimenticare di far autenticare i documenti dal notaio. Oggi.
Enrico annuì. Avrebbe voluto dirle “scusami”, ma non sapeva per cosa. Avrebbe voluto dirle “grazie”, ma non trovava il motivo. Alla fine, riuscì solo a dire:
—Sei… bella.
E lei lo guardò come se non lo conoscesse, e se ne andò. I suoi passi si persero nel rumore della pioggia, mentre il leggero profumo del suo profumo rimase sospeso nell’aria, come un fantasma del loro passato.
Enrico rimase immobile nel corridoio vuoto del tribunale. Da qualche parte una porta sbatté, qualcuno tossì, qualcuno parlò al telefono. E lui si chiese: “È la fine? O l’inizio?”
Invece di tornare a casa, si diresse verso la bottega del nonno, un vecchio angolo di Rivarolo dove il tempo sembrava essersi fermato. La piccola stanza dal soffitto basso odorava di olio e polvere. Gli scaffali erano pieni di barattoli di viti, scatole di molle e un vecchio poster sull’arte orologiaia. La chiave della bottega era ancora nel suo vecchio portafoglio, in una tasca consunta. Enrico aprì la porta, accese la luce. La lampadina sfarfallò, ma si accese, riempiendo tutto di quella luce gialla che da bambino gli faceva bruciare gli occhi.
L’orologio a muro ticchettava, come se conservasse il ritmo della sua vita. Enrico si sedette al vecchio tavolo, passando le dita sulla superficie ruvida, sentendo ogni graffio, ogni intaccatura. Le sue mani tremavano—non per la paura, ma per la sensazione improvvisa che avessero di nuovo uno scopo. Tirò fuori dal cassetto un vecchio orologio che non aveva mai riparato anni prima. Lo smontò, dispose gli ingranaggi sul tessuto, respirando con calma. Lo rimontò. Lo caricò. Tic. Un altro tic. E improvvisamente, il tempo sembrò sussurrare: “Sono ancora qui”.
Il giorno dopo, tornò. E poi ancora. Dopo tre settimane, sostituì la vecchia insegna con una nuova: “Bottega Aperta”. Il cartello era fissato con del nastro adesivo storto, ma stava lì saldo, come se sapesse di essere al posto giusto.
La gente cominciò ad arrivare. Donne anziane portavano orologi antichi con una speranza timida negli occhi. Uomini con meccanismi di valore sembravano smarriti, come se il guasto avesse sconvolto il loro mondo. Ragazzini proponevano idee strane: “Si può fare che il quadrante si illumini?” Enrico annuiva, prendeva i loro tesori tra le mani e li riparava. Stava in silenzio. Ascoltava. A volte, le persone non parlavano degli orologi, ma delle loro sfortune—divorzi, perdite, ciò che si era rotto dentro di loro. E lui inseriva una vite, e il meccanismo tornava a vivere.
Un giorno arrivò una ragazza—esile, con capelli castani e un sorriso leggero. Si chiamava Beatrice. Portò l’orologio del padre—il quadrante graffiato, le lancette immobili. Guardò Enrico con incertezza, come se temesse che quell’oggetto fosse ormai perduto.
—Ci riuscirà? — chiese piano.
Lui annuì. Lavorò a lungo, con pause, come se ascoltasse non solo il meccanismo, ma anche il suo silenzioso dolore.
Dopo un mese, Beatrice tornò. Senza l’orologio, ma con una busta contenente tè caldo e una crostata fatta in casa. Poi venne ancora, senza motivo. Un giorno, mentre sistemavano insieme una scatola di viti, disse all’improvviso:
—Non aggiusti soltanto orologi. Ricomp—Ricompensi le persone, pezzo per pezzo, senza che nemmeno se ne accorgano.
E in quel momento, mentre l’orologio riparato ticchettava dolcemente sulla mensola, Enrico sentì che il tempo, finalmente, aveva ricominciato a scorrere nel modo giusto.