Il miglior marito è quello che non esiste

Il miglior marito è quello che non c’è

Alessandra aveva smesso da tempo di credere nei miracoli. Dopo il divorzio erano passati sei anni. Sei inverni, primavere, estati e autunni infiniti. Sua figlia si era sposata un anno prima ed era partita per Milano, chiamava raramente e le conversazioni si limitavano a un “mamma, tutto bene”.

Ma nessuno aveva mai chiesto ad Alessandra se stesse bene. A quarantadue anni, un’età in cui una donna sboccia e impara a respirare di nuovo, chi le avrebbe mai chiesto se il suo cuore era vuoto?

Era brava in tutto: cucinava divinamente, preparava conserve di pomodori e melanzane che facevano leccare i baffi ai vicini. Il balcone era un’esposizione di barattoli, come una mostra della sua solitudine. “Non possono marcire qui dentro, una bella donna come me!” scherzava con le amiche. E loro rispondevano: “Certo che no! Cerca! Guarda quanti uomini ci sono in giro!”

Qualcuna le suggerì: “Prova un’agenzia matrimoniale. Dicono che ti trovano l’uomo perfetto. Si chiama «Il Miglior Marito»”.

Alessandra sbuffò scettica: “Ma dai, sembra un supermercato: scegli, prova, restituisci!” Ma poi ricordò i suoi quarantadue anni e il ticchettio implacabile dell’orologio a muro della nonna. E ci andò.

Ad accoglierla, una donna in un giacchetto rosso fuoco e occhiali a forma di cuore.

“Da noi è tutto serio,” sorrise. “Selezioniamo i candidati, te li diamo per una settimana. Se ti piace, lo tieni; altrimenti, lo restituisci.”

“Davvero… ‘darlo’?” ridacchiò Alessandra.

“Esatto! Vive con te. Capisci subito se è quello giusto. Risparmi tempo. Niente maniaci, controlli severi.”

Alessandra, senza volerlo, si entusiasmò. Scelsero cinque candidati. Pagò. Il primo sarebbe arrivato quella sera.

Tirò fuori dall’armadio il vestito verde smeraldo, il “colore della speranza”, come diceva sua madre. Si mise gli orecchini con i cristalli, conservati in una vecchia scatola di profumo. Il cuore le batteva tra emozione e paura.

Ding-dong! Il campanello. Alessandra sbirciò dal buco della serratura. Rose. Un mazzo enorme. Il cuore le balzò in gola. Aprì. L’uomo era bello come in foto, in giacca e cravatta, con un sorriso sicuro. A tavola, cibo pronto: antipasti, pasta, dolce…

Assaggiò l’insalata — fece una smorfia:
“Un po’ salata.”

La pasta —
“Troppo cotta.”

Il vino —
“Ma che spazzatura?”

Poi si alzò, passeggiò per casa con aria critica:
“Arredamento modesto. La cucina andrebbe rifatta.”

Alessandra prese il mazzo e glielo restituì con calma:
“Non mi piacciono le rose. Arrivederci.”

Quella notte pianse un po’. Era amaro. Ma ne restavano ancora quattro.

La sera dopo arrivò il secondo. Puzzava di alcol.
“Già festeggi il nostro incontro?” chiese Alessandra con cautela.
“Su, su! Accendi la tv, c’è la partita!”

“Guardatela a casa tua,” rispose secca, chiudendogli la porta in faccia.

Il terzo arrivò due giorni dopo. Non un Adone, con scarpe sporche e una giacca sbiadita. Le venne voglia di mandarlo via subito, ma lo invitò a cena per gentilezza.

Mangiava con gusto, lodando ogni piatto. Quando assaggiò le conserve, rimase senza parole:
“Ma questo è un capolavoro, donna mia! Mai mangiato niente di simile!”

Il rintocco dell’orologio attirò la sua attenzione.
“Che rumore è?”
In un attimo era in piedi sulla sedia con un cacciavite. Dopo un quarto d’ora, l’orologio ticchettava perfetto. Alessandra lo osservò e pensò: “Eccolo. Il mio uomo. Magari non bello, ma con le mani d’oro. Il terzo candidato: il numero fortunato.”

Quella sera uscì dal bagno, in un lingerie di seta con rose. Lui… già russava. Vestito. A pancia in giù. Come un trattore a freddo.

Alessandra combatté con quel russare tutta la notte: cuscini, strattoni, bestemmie mentali. Non dormì mai. Al mattino —
“Allora, stasera vengo con le valigie?”

“No. Scusa. Sei un brav’uomo… ma no.”

Il quarto sembrava uscito da un film degli anni ’70: barba, chitarra, sguardo ribelle. Accese una sigaretta in cucina, lasciando cadere la cenere sul vaso dei fiori.
“Ti dico subito: amo la libertà. Niente chiamate ossessive, niente domande su dove sono. E poi… amo le donne.”

“Ah, quindi fai anche la collezione?” precisò Alessandra.

“E perché no? Sono un uomo, no?”

Dopo che se ne fu andato, Alessandra tenne la finestra aperta per ore. Le doleva la testa come dopo una sbronza. Si sentiva svuotata. Non lavò nemmeno i piatti. Dormì come un sasso.

La mattina dopo, sole. Silenzio. Nessun rumore, odore di un altro. Solo lei, un caffè e i passeri fuori dalla finestra.
“Che bello stare da sola…”

E il telefono squillò:
“Alessandra! Qui «Il Miglior Marito». Oggi arriva il quinto candidato. Credimi, è lui!”

“Cancellatemi pure!” gridò nel telefono. “Il miglior marito è quello che non c’è!”

E con un sollievo immenso, ridendo felice, aprì le tende come se salutasse un nuovo mattino di libertà.

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