Oggi ho sentito qualcosa che mi ha spezzato il cuore. “Devi rispettare i miei diritti!” ha detto mio figlio, senza sapere quanto possa far male alle orecchie di una madre.
Era una fredda sera di ottobre, e io, Lucia, avvolta nel mio accappatoio, avevo appena messo sul tavolo una teglia di tortelli ancora fumanti. La cucina si era riempita del profumo della pasta fresca, mentre dal finestro entrava l’umido sgradito dell’autunno. Tutti si erano affrettati a sedersi, desiderosi di scaldarsi con una tazza di tè e dimenticare l’aria pungente.
Mio figlio, Matteo, dieci anni, si era seduto in silenzio, aveva preso un tortello, ma non mangiava. Lo smuoveva solo con la forchetta, accigliato, lo sguardo serio come se avesse scoperto chissà quale verità.
“Che hai, Matteo?” ho chiesto, avvicinandomi. “Sei così pensieroso. È successo qualcosa a scuola?”
Lui ha posato la forchetta e ha risposto con voce decisa:
“Oggi è venuto un signore della polizia a parlare con la nostra classe. Ha detto che noi bambini abbiamo dei diritti. E che spesso i genitori li calpestano.”
Ho sollevato un sopracciglio, sorpresa.
“Davvero? E cosa avrebbe detto di così importante?”
“Tante cose,” ha proseguito con aria da adulto. “Per esempio, che non potete obbligarmi a fare cose che non voglio. Che tu e papà dovete rispettare la mia personalità. E poi ho diritto a una vita privata! Posso decidere io come passare il mio tempo.”
“Una vita privata?” ho ripetuto, trattenendo a fatica un sorriso.
“Sì! Io voglio giocare al computer dopo scuola, e tu mi fai fare i compiti. È una violazione della mia libertà! E poi gridi se non mangio i broccoli. Secondo lui, è pressione psicologica! E le sculacciate? Sai che è reato, vero? Potrebbero portarmi via, se volessi!”
Sono rimasta in silenzio, appoggiata al tavolo, ascoltando parole che non sembravano sue. Ricordavo quando era piccolo, quando piangeva di notte e si stringeva a me, e io vegliavo su di lui, trattenendo il respiro ad ogni suo singhiozzo. E ora eccolo era lì, davanti a me, un “individuo con diritti”.
“E la maestra? Hai paura di lei?” ho chiesto più piano. “Se ti fa stare dopo lezione, chiami anche la polizia?”
“Certo! È trattenimento illegale. Posso denunciarla.”
“E se la mettono in prigione? Non ti dispiacerebbe?”
Per un attimo la sua voce ha esitato.
“Be’… sì, ma non deve infrangere le regole!”
Ho sospirato, girandomi verso il lavandino per lavare i piatti. Intanto Matteo ha preso un foglio e ha iniziato a scrivere. Poi mi ha raggiunta e me l’ha messo in mano.
Con una grafia infantile ma sicura, c’era scritto:
“Prezzo dei miei servizi: pulire la camera — 5 euro, portare a spasso il cane — 3, fare la spesa — 2. Totale: 10 euro a settimana. Più 13 euro della settimana scorsa.”
Ho guardato quel foglietto e qualcosa mi ha stretto il petto. Era come se un muro si fosse alzato tra noi. Allora ho preso un altro foglio e ho iniziato a scrivere anche io, con una grafia tremula. A un certo punto ho riso, ma subito dopo gli occhi mi si sono riempiti di lacrime. Quando ho finito, ho piegato il foglio e gliel’ho passato.
Lui l’ha preso e ha letto:
“Miei servizi: notti insonni — migliaia, lavare, pulire, cucinare — ogni giorno, preoccupazioni — infinite. Riunioni scolastiche, ospedali, cadute, pianti, paure, gioie, primi passi, prime parole. Preghiere quando eri malato. Un cuore che batte solo per te. Gratis. Perché ti amo.”
Matteo è rimasto muto. Poi all’improvviso mi ha abbracciata forte, fortissimo, e sussurrato:
“Scusami, mamma… Volevo solo sembrare grande. Non sapevo che ti avrei fatto così male…”
Io l’ho stretto a me, baciandogli i capelli, e ho sussurrato:
“Sappi solo una cosa, piccolino… i diritti sono importanti. Ma l’amore e il rispetto contano di più. Essere una famiglia significa prendersi cura l’uno dell’altro, non per soldi, ma perché il cuore lo chiede.”
Quella sera siamo rimasti seduti insieme, stretti l’uno all’altro. Fuori soffiava un vento gelido, ma in casa era caldo. Perché, finalmente, eravamo davvero di nuovo uniti.