Il mio piccolo, ma tanto familiare e accogliente mondo crollò quando compii 34 anni. Fino a ieri sembrava che avessimo tutto: una casa accogliente e una famiglia solida, e oggi tutto è diventato una menzogna e sabbia che scivola tra le dita. Mio marito stesso chiese il divorzio, continuando a vivere con me nella stessa casa, sorridendo a me e ai bambini durante la cena, e poi arrivò semplicemente per posta una lettera raccomandata con la sua richiesta e la convocazione con la data fissata.
– Da tempo volevo dirtelo, – balbettava l’uomo che una volta era il più caro per me, – così sarà meglio. Sono stanco di mentire.
– Dove andrai adesso, – piangeva mia madre, dopo aver saputo che io e Nicola ci stavamo separando, – chi ti vorrà con due figli, senza lavoro e senza casa? Tuo padre vive con me e c’è anche tua sorella minore.
Le lamentele di mia madre sulla mia sventura erano interrotte dai peggiori epiteti nei confronti del mio marito e dalle accuse verso di me: non sono riuscita, non ho tenuto duro, avrei dovuto lottare per la famiglia. Ma per cosa avrei dovuto lottare? Con chi? Fino a questa sera, tutto sembrava andare bene. Poi, la sera, sono scesa a controllare la cassetta della posta.
Di cosa ci sarebbe da piangere! – borbottava mio nonno dalla sua sedia a rotelle, – Non è mica la guerra! Su col morale. Ce la farete, tuo figlio è già grande, non sparirete.
Ma intanto non riuscivo a capire come far fronte alla disgrazia che mi era capitata addosso.
– Non hai bisogno di lavorare, – disse mio marito tre anni fa, quando fui dimessa dall’ospedale con nostro figlio di 4 anni, – nostro figlio non è da asilo, stai a casa e cresce. Almeno fino alla scuola.
E io rimasi a casa, crescendo mio figlio, portando la figlia maggiore Chiara ai corsi e alla scuola di musica. E ora che nostro figlio va a scuola e Chiara sta per compiere 15 anni, non ho lavoro e la casa, che apparteneva a mio marito prima del matrimonio, devo lasciarla entro una settimana.
– Hai la casa della nonna, – disse Nicola, – ti aiuterò a traslocare, puoi prendere le stoviglie, gli elettrodomestici, la lavatrice, il frigorifero e tutto il resto. Oh, grazie, mio generoso coniuge. Certo che li prenderò. E il frigorifero, e la lavatrice. Ma cosa me ne faccio di una lavatrice in una vecchia casa senza acqua corrente e con la stufa. Perché, nei quattro anni da quando quella casetta era diventata mia eredità dalla nonna defunta e dal nonno che mia madre ha portato con sé, tu ti rifiutavi di fare qualsiasi cosa lì, dicendo che avevamo un appartamento ben attrezzato e la casetta nel quartiere privato era solo una dacia. Una dacia, dove ora dovrò vivere. Con i bambini.
– Oh, puzza di umido, – Chiara si fece un’espressione disgustata entrando in casa, – non voglio vivere qui, voglio tornare a casa. E Nicola si dileguò rapidamente, per non spiegare alla figlia che ora questa era anche la sua casa. Una settimana dopo, tornando da scuola, Chiara iniziò a mettere frettolosamente le sue cose in borse e valigie.
– Ho il diritto di scegliere, – esclamò accesa, – vivrò con papà, non voglio star qui a trafficare con la legna e i catinelli. Non sei riuscita a trattenere papà, perché devo soffrire io?
Non trattenni mia figlia, e il piccolo Marco si avvicinò a me come un passero infreddolito e mi abbracciò più forte che poteva con le sue braccia ancora molto deboli. Come abbiamo superato io e mio figlio il primo inverno in quella vecchia casa? Come raccontare che mi alzavo alle due di notte per accendere di nuovo la stufa, affinché ci fosse calore quando Marco si svegliava. E Marco, tornando da scuola, metteva con cura una pila di legna gelata nell’ingresso, perché si scaldasse e si scongelasse entro sera, quando sarebbe stato il tempo di riaccendere la stufa. Come raccontare dei secchi che trascinavamo sui carrellini io e mio figlio per organizzare il giorno del “bagno”? Come raccontare che non avevo diritto agli alimenti e che in un negozio vicino mi pagavano molto meno di quanto avevano promesso? Come raccontare dei rimproveri di mia madre: “Tua figlia se n’è andata da te per stare con suo padre e una zia sconosciuta, e tu non fai nulla per farla tornare? Ma che madre sei. Guarda, lui porterà via anche Marco da te”.
– Nessuno mi porterà via, – diceva serio mio figlio, maturo per la sua età, – da nessuna parte voglio andare. E da LUI non ci vado. E a Chiara la vedo a scuola.
Un anno dopo accadde un miracolo! La mia casetta finì in una zona di riqualificazione per la costruzione di una scuola nei dintorni. Le autorità cittadine trovarono il modo di darci degli appartamenti, in modo che il nuovo edificio avesse un grande cortile e un’area sportiva. E la mia casa, benché modesta, in termini di metratura bastò per un bilocale.
– Mamma, – chiamò Chiara, – posso trasferirmi da voi?
– Certo che puoi, figlia mia, – risposi semplicemente.
E di nuovo mia madre e le amiche mi rimproveravano per la mia debolezza.
– Ha scelto il papà, allora sarebbe dovuta restare con lui. Cosa non va bene? Ma ora mamma ha una casa nuova, può tornare a vivere e non preoccuparsi più di nulla?
Chiara entrò con le borse, timida e con la testa bassa. Poi scoppiò in lacrime sulla soglia. Singhiozzava e mormorava incoerentemente: “Pensavo… lui diceva… ma in realtà è un traditore… sono tutti uguali? Litigano ogni giorno. E io sono la colpevole. E la sorellina piange sempre. E conta sempre chi di noi ha lavato i piatti quante volte. E poi urla che mangio troppo. E papà, che tipo di uomo è che non ha mai preso le mie difese… chiamarla mamma. Ma quale mamma?”
Rassicuravo la mia giovane figlia, che per la prima volta si ritrovava ad affrontare il tradimento della persona più vicina, accarezzandola semplicemente tra i capelli, aspettando che passasse questo diluvio di lacrime infantili. Così restammo sedute a terra nell’ingresso, tra le valigie che portava fuori dalla porta il mio ex marito, che non volle nemmeno entrare per vedere suo figlio.
– Mamma, – la figlia alzò verso di me un viso gonfio di pianto, ancora così infantile, – è sempre così? Non ci sono uomini buoni?
Fu allora che Marco osò avvicinarsi al nostro piccolo diluvio minacciando di allagare i vicini giù. Ci abbracciò entrambe, quanto permettevano le braccine di un bambino di otto anni.
– Dici che non ci sono uomini veri? – chiesi alla figlia, – Beh, uno lo conosco di sicuro!
E il nostro unico uomo si limitò a fare un sorrisetto e trascinò nel suo cameretta la pesante borsa della sorella, borbottando sottovoce, cercando di imitare la voce profonda e il disprezzo tutto maschile per la nostra natura generosa in lacrime: – Vi lamentate di niente. Non è mica la guerra!