Il mio stomaco brontolava come un cane randagio e le mie mani si stavano congelando.

Lo stomaco mi brontolava come un cane randagio, e le mani erano gelate. Camminavo sul marciapiede guardando le vetrine illuminate dei ristoranti, con quellodore di cibo appena cucinato che faceva più male del freddo. Non avevo nemmeno un centesimo.
NESSUNO DOVREBBE MANGIARE GLI AVANZI
Milano era gelida. Quel tipo di freddo che non passa con una sciarpa o con le mani in tasca. Era il freddo che si infila nelle ossa, che ti ricorda che sei sola, senza casa, senza cibo senza nessuno.
Avevo fame.
Non quella fame da non mangio da qualche ora, ma quella che ti resta dentro per giorni. Quella che fa brontolare lo stomaco come un tamburo e ti fa girare la testa se ti pieghi troppo in fretta. Fame vera. Fame che fa male.
Erano più di due giorni che non mettevo niente sotto i denti. Avevo bevuto solo un po dacqua da una fontanella e mangiato un pezzo di pane raffermo che una signora mi aveva regalato per strada. Le scarpe erano rotte, i vestiti sporchi, i capelli arruffati come se mi fossi litigata con il vento.
Camminavo lungo una via piena di ristoranti eleganti. Le luci calde, la musica soft, le risate della gente seduta ai tavoli tutto sembrava un mondo lontano dal mio. Dietro ogni vetrina, famiglie brindavano, coppie sorridevano, bambini giocavano con le posate come se niente potesse far male.
E io io morivo per un pezzo di pane.
Dopo aver girato per vari isolati, decisi di entrare in un ristorante che profumava di paradiso. Lodore di carne arrosto, riso fumante e burro fuso mi faceva venire lacquolina. I tavoli erano pieni, ma nessuno mi notò allinizio. Vidi un tavolo appena liberato, con ancora qualche resto di cibo, e il cuore mi fece un salto.
Mi avvicinai piano, senza guardare nessuno. Mi sedetti come se fossi una cliente, come se avessi il diritto di stare lì. E senza pensarci, presi un pezzo di pane duro rimasto nel cestino e lo portai alla bocca. Era freddo, ma per me era una delizia.
Mangiai qualche patata fredda con le mani tremanti, cercando di non piangere. Poi un pezzo di carne quasi secca. Lo masticai lentamente, come se fosse lultimo boccone al mondo. Ma proprio quando cominciavo a rilassarmi, una voce profonda mi colpì come uno schiaffo:
Ehi. Non puoi fare così.
Mi bloccai. Ingollai a fatica e abbassai lo sguardo.
Era un uomo alto, impeccabile in un completo scuro. Le scarpe luccicavano come specchi, la cravatta perfetta sulla camicia bianca. Non era un cameriere. Non sembrava nemmeno un cliente normale.
Mi mi scusi, signore, balbettai, con la faccia che mi bruciava dalla vergogna. Avevo solo fame
Provai a infilare una patata in tasca, come se potesse salvarmi dallumiliazione. Lui non disse niente. Mi guardò solo, come se non sapesse se arrabbiarsi o aver pietà.
Vieni con me, ordinò alla fine.
Io feci un passo indietro.
Non rubo niente, supplicai. Mi lasci finire e me ne vado. Glielo giuro, non farò storie.
Mi sentivo così piccola, così rotta, così invisibile. Come se non appartenessi a quel posto. Come se fossi solo unombra di troppo.
Ma invece di cacciarmi, alzò la mano, fece un cenno a un cameriere, e si sedette a un tavolo in fondo.
Io rimasi ferma, senza capire. Dopo qualche minuto, il cameriere si avvicinò con un vassoio e posò davanti a me un piatto fumante: riso soffice, carne succosa, verdure al vapore, una fetta di pane caldo e un bicchiere grande di latte.
È per me? chiesi con voce tremante.
Sì, rispose il cameriere, sorridendo.
Alzai lo sguardo e vidi luomo che mi osservava dal suo tavolo. Non cera scherno nei suoi occhi. Né pietà. Solo una strana calma.
Mi avvicinai a lui, con le gambe molli.
Perché mi ha dato da mangiare? sussurrai.
Lui si tolse la giacca e la mise sulla sedia, come se si togliesse unarmatura invisibile.
Perché nessuno dovrebbe cercare negli avanzi per sopravvivere, disse con voce ferma. Mangia tranquilla. Io sono il proprietario di questo posto. E da oggi, ci sarà sempre un piatto che ti aspetta qui.
Rimasi senza parole. Le lacrime mi bruciarono gli occhi. Piansi, ma non solo per la fame. Piansi per la vergogna, per la stanchezza, per lumiliazione di sentirmi inferiore e per il sollievo di sapere che qualcuno, per la prima volta da tanto tempo, mi aveva vista davvero.
***
Tornai il giorno dopo.
E quello dopo ancora.
E ancora.
Ogni volta, il cameriere mi accoglieva con un sorriso, come se fossi una cliente abituale. Mi sedevo allo stesso tavolo, mangiavo in silenzio, e quando finivo, piegavo con cura i tovaglioli.
Una sera, lui riapparve: luomo con il completo. Mi invitò a sedermi con lui. Allinizio esitai, ma qualcosa nella sua voce mi fece sentire al sicuro.
Hai un nome? mi chiese.
Beatrice, risposi piano.
Quanti anni hai?
Diciassette.
Annuì lentamente. Non chiese altro.
Dopo un po, mi disse:
Hai fame, sì. Ma non solo di cibo.
Lo guardai confusa.
Hai fame di rispetto. Di dignità. Che qualcuno ti chieda come stai e non ti veda solo come spazzatura in strada.
Non seppi cosa rispondere. Ma aveva ragione.
Cosè successo alla tua famiglia?
Sono morti. Mia mamma di malattia. Mio papà se nè andato con unaltra. Non è più tornato. Sono rimasta sola. Mi hanno cacciata da dove vivevo. Non avevo dove andare.
E la scuola?
Lho lasciata in seconda media. Mi vergognavo ad andarci sporca. Le professoresse mi trattavano come unestranea. I compagni mi insultavano.
Luomo annuì di nuovo.
Tu non hai bisogno di pietà. Hai bisogno di opportunità.
Tirò fuori un biglietto dalla tasca e me lo diede.
Vai domani a questo indirizzo. È un centro di formazione per ragazzi come te. Offriamo supporto, cibo, vestiti, e soprattutto strumenti. Voglio che tu ci vada.
Perché lo fa? chiesi con le lacrime agli occhi.
Perché quando ero bambino, ho mangiato anchio dagli avanzi. E qualcuno mi ha teso la mano. Ora tocca a me farlo.
***
Passarono gli anni. Entrai nel centro che mi aveva consigliato. Imparai a cucinare, a leggere bene, a usare il computer. Mi diedero un letto caldo, lezioni sullautostima, uno psicologo che mi insegnò che non valevo meno di nessuno.
Oggi ho ventitré anni.
Lavoro come responsabile di cucina in quello stesso ristorante dove tutto è cominciato. Porto i capelli puliti, la divisa stirata, le scarpe solide. Mi assicuro che non manchi mai un piatto caldo per chi ne ha bisogno. A volte arrivano bambini, anziani, donne incinte tutti con fame di pane, ma anche di essere visti.
E ogni volta che uno di loro entra, li servo con un sorriso e

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