Il mistero degli appellativi di un uomo senza limiti

Tutti i vicini sapevano che Giovanni era un asino, un testone, un caprone senz’arte né parte. L’appellativo variava in proporzione al misfatto. Le gaffe avevano dimensioni variabili, e così pure la furia di sua moglie.
Giulia invece era la sua Coniglietta, la Volpina, il suo Sole. Udendola strillare, la gente si domandava quando mai quel caprone avrebbe reagito, ma poi, riflettendo sulla sua indole docile, concludeva: mai. Giovanni fingeva sordità, nessuna reazione agli improperi. Questa calma, questa indifferenza alla sua collera, era benzina sul fuoco. Stanca di urlare, Giulia usciva di casa. Un groppo alla gola, il volto in fiamme, le mani tremanti, la voce roca. Voglia di piangere, ma niente lacrime. E Giovanni, alla moglie che usciva, bisbigliava: “E tu dove vai, Coniglietta?”
I primi anni di matrimonio erano stati sereni. Se qualcuno avesse detto che quella pace si sarebbe mutata in guerra, Giulia non avrebbe creduto. Aveva sposato l’uomo che amava, che adorava, non un caprone! Giovanni faceva il saldatore, non beveva, non fumava, placido come un orso in letargo, sempre positivo, soddisfatto. Le mogli degli ubriaconi lo additavano come esempio, e Giulia ne era fiera. Rinviammo i figli: prima la sauna, il box, l’automobile. La cooperativa ci aveva dato una casa, e Giulia voleva arredarla con gusto.
Giovanni era lentissimo, forse pigro. Il lavoro lo aspettava sempre. Rideva: “Il lavoro non finisce mai. A volte basta aspettare, certe faccende si risolvono da sole. Perché correre? Io dico che senza voglia, è meglio non fare. Altrimenti è sfruttare sé stessi”. Non aveva ambizioni da capocantiere. Giulia invece affrontava ogni lavoro, e le riusciva bene come a lui: zappare l’orto, imbiancare, tagliare l’erba, spaccare legna per la sauna.
Per fortuna la casa era moderna, niente secchi d’acqua da portare. Era più sbrigativo far da sé che smuovere quel marito. Una notte un tonfo tremendo dalla cucina ci svegliò. Le mattonelle messe da Giovanni erano scivolate giù tutte. Giulia lo apostrofò “Maldestro!” e il giorno dopo chiamò un artigiano.
Tornando una sera dal lavoro, non riconobbe più l’aiuola: tutta zappata dagli zoccoli della vacca del vicino, fiori calpestati perché Giovanni aveva lasciato il cancello aperto. Ogni giorno la sua lentezza, la pigrizia, l’indifferenza, irritavano Giulia sempre più.
Accanto a noi c’era una casa abbandonata. I vecchi erano morti, gli eredi avevano smesso di curarla. Ma un giorno parcheggiò un’auto di lusso. Era il nipote del nonno Luigi, tornato con la famiglia per restare. Aveva lavorato a Milano, sposato là, ma per vivere era meglio la terra natìa. Dario ristrutturò la casa vecchia. E fu allora che mostrò a Giulia cosa significava non mollare un lavoro. Era un campione, muratore, saldatore, elettricista… e la moglie non gli stava di fianco. Lei badava solo alla casa e al bimbo.
Giulia, osservando il vicino, si indignava sempre più con Giovanni. Era stanca di essere forte, voleva essere fragile. Tentò di spronare il marito ai lavori propri di un uomo, ma Giovanni non era un trascinatore, neppure nella vita familiare; gli bastava stare in seconda fila. La Giulia stanca s’arrabbiava sempre più, offendendolo sempre più spesso. La gente la giudicava una rompiscatole, lui un poveraccio. Cominciò a pensare al divorzio, non poteva trainare il carro da sola per sempre. Puntava Dario come esempio, e Giovanni sorrideva: “Erba del vicino sempre più verde”.
Giovanni non coglieva gli accenni al divorzio. Tante donne pativano mariti ubriaconi o donnaioli, ma lei, non picchiata, non tradita, amatissima, vuole il divorzio? Non l’aveva mai ostacolata, faceva ciò che voleva, andava dove le pareva, dei soldi non sapeva nulla, lei li gestiva. “E allora? So lento, ma perché correre? Perché tutto questo trambusto per nulla? E perché dovrei dire a mia moglie cosa fare? Lei sa, è la padrona. Certo, non sono un artista col piastrellista, ma guadagno bene, si può chiamare un artigiano. Certo, la domenica voglio riposare, e anche lei che riposi, senza cercar lavoro che si nasconde. Perché guardare nelle case altrui, chiedersi come vivono? Siamo tutti diversi, nel carattere e nel lavoro. Non capisco perché la mia Coniglietta voglia il divorzio”. Giovanni sospirò davanti alla TV, si grattò la testa e si tranquillizzò.
Giulia portava la sera il latte al piccino dei vicini. Sveva l’invitò a cena, ci fu l’occasione per stappare un vino. A tavola Dario pareva un signore, Sveva una serva: “Passa il sale! Non sali mai abbastanza! E manca il pepe! Sai che mi piace più croccante! Con questo vino ne ho viste ben altre. Tovaglioli? Cavatappi? Freddo! Perché l’hai riscaldato troppo? Porta! Prendi! Togli! Zitta, lo so io! Nessuno ha chiesto a te!”. E così per tutta la sera.
Pianto di Nico, Sveva uscì nella stanza accanto. Giulia, impacciata, chiese della mobilia nuova che, diceva Sveva, volevano comprare. Arrivò la padrona di casa e, capito di cosa si parlava, inserì due parole, cercò di spiegare cosa desiderava.
“Compro quel che voglio io! Non importano i tuoi desideri! Spendere sappiamo tutti, guadagnare è un’altra cosa!”. A Giulia cadde l’anima ai piedi, vedendo quel marito con la moglie docile, incapace di farsi valere. Pensò di Dario ogni male, ma parlare sarebbe stato inimicarsi per sempre.
Guardò la “coppia felice” e se ne andò mogia.
“Coniglietta, dov’eri? Vieni, ho fatto il tè come piace
E da allora, Irina comprese che la vera felicità stava nel coltivare ciò che già possedeva, accarezzò la guancia di Ivan e sospirò, decisa a godersi quel matrimonio pieno di piccole imperfezioni ma senza veleni, mentre la luna di Firenze illuminava le persiane socchiuse.

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