Tutti i vicini sapevano che Giovanni era una bestia senza mani né piedi, vuoto di cervello, senza corna: ora pecora, ora caprone, ora cane. Ogni soprannome corrispondeva perfettamente alla bravata di Giovanni. Ogni volta l’entità della sciocchezza variava, così come l’intensità della rabbia di sua moglie.
Isabella, invece, per il marito era: Coniglietta, Volpacchiotta, Sole e Piccioncina. Sentendo le sue strilla, la gente si chiedeva quando mai quel montone avrebbe dato una lezione alla coniglietta, ma ricordando che era anche una bestia senza corni, concludeva: mai. Giovanni poteva fingersi sordomuto, non reagire per nulla alle urla e agli insulti della moglie. Era proprio questa calma, questa indifferenza al suo furore, la causa degli accessi d’ira interminabili della consorte. Stanca di gridare, Isabella se ne usciva di casa. Un groppo la serrava alla gola e la soffocava. Il viso si copriva di chiazze rosse, le mani tremavano, la voce si faceva roca. Le veniva voglia di piangere dirottamente, ma le lacrime non scendevano. E Giovanni, alla moglie che se ne andava, chiedeva piano: “E tu dove vai, Coniglietta?”
I primi anni dopo il matrimonio, vissero in armonia, quieti e pacifici. Se qualcuno avesse detto che dopo alcuni anni la vita serena si sarebbe trasformata in litigiosa e piena di scenate, Isabella non l’avrebbe mai creduto. Aveva sposato l’uomo che amava, quello a cui voleva un bene dell’anima, mica un caprone! Giovanni faceva il saldatore, mai beveva alcolici, mai fumava, era tranquillo come un orso in letargo, sempre ottimista, tutto nella vita lo accontentava. Le mogli degli uomini ubriaconi e donnaioli lo prendevano come esempio, dunque Isabella era fiera di lui. Decisero di non avere subito figli. Prima bisognava costruire una rimessa, un garage, comprare un’auto. La cooperativa agricola aveva assegnato loro una casa, e Isabella voleva sistemarla alla perfezione.
Giovanni era molto lento, o forse anche pigro. Il lavoro lo aspettava sempre; ridendo, diceva: “Tutto non si fa mai. Bisogna lasciar passare a volte, certe cose si risolvono da sole. A che serve correre? Io dico che senza voglia non bisogna neanche cominciare. Altrimenti non è più lavoro, ma sfruttamento di sé stessi.” Mai ebbe particolare voglia d’essere un leader nel lavoro. Isabella affrontava qualsiasi cosa, e faceva tutto non peggio di Giovanni: poteva zappare l’orto, tinteggiare la casa, tagliare l’erba del giardino, spaccare la legna per la stufa.
Per fortuna la casa aveva tutti i servizi, e non doveva più portare su l’acqua come un tempo. Le riusciva meglio e più in fretta fare da sola che smuovere il marito. Una notte si svegliarono per un fracasso terribile proveniente dalla cucina. La piastrella, messa da Giovanni, era scivolata dalla fila di sopra fino a quella di sotto. Isabella lo definì “senza mani” e il giorno seguente chiamò un artigiano capace.
Una sera tornò dal lavoro e non riconobbe la sua aiuola: tutta scavata dagli zoccoli della vacca del vicino, i fiori calpestati, perché Giovanni non aveva chiuso il cancelletto. Ogni giorno lentezza, pigrizia e indifferenza del marito irritavano Isabella sempre più.
Accanto alla loro casa c’era una casa abbandonata. I vecchi erano morti da tempo, gli eredi dapprima tagliarono ogni tanto le erbacce, poi lasciarono il casolare in abbandono. Ma un giorno a quella casa arrivò una costosa berlina straniera. Era il nipote del nonno Paolo, che tornava con la famiglia a stabilirsi qui.
Aveva lavorato a lungo a Milano, dove si era anche sposato, e ora rientrava al paese natale. Milano era stato il luogo per guadagnare, ma per vivere era meglio la piccola patria. Domenico cominciò a ristrutturare la vecchia abitazione. Fu allora che dimostrò a Isabella cosa significasse non mollare mai il lavoro. Diede prova di classe come muratore, saldatore ed elettricista, e in tutto ciò che faceva, la moglie non era accanto. Si occupava solo delle faccende domestiche e del bambino.
Isabella, osservando il vicino, si arrabbiava col marito sempre più. Era stanca di essere forte, voleva essere debole e tenera. Tante volte suggerì, dirottò il marito verso i lavori che ogni uomo dovrebbe fare, ma Giovanni non era un leader nelle cose; anche in secondo piano nella vita familiare stava bene. Isabella stanca si arrabbiava sempre più spesso e finiva sempre più spesso a insultare. La gente cominciò a considerarla una donna viziata e lui un disgraziato. Prese a pensare al divorzio, perché non ce la faceva più a tirare da sola il carro nella vita domestica. Metteva sempre più spesso il vicino come esempio, al che Giovanni sorrideva e rispondeva: “A guardar di fuori, par bello ciò che non è nostro”.
Giovanni proprio non coglieva l’allusione della moglie sul divorzio. Molte donne soffrivano coi mariti ubriaconi e donnaioli, lì invece non era malmenata, non maledetta, era amata e divorziava! Ma lui non le aveva mai fatto alcun torto, faceva quel che voleva, andava dove le pareva, sui soldi poi non aveva idea di dove li spendesse. “Be’, è vero, sono lento; perché affannarsi? Perché strafare a vuoto? E perché dovrei dire alla moglie cosa deve fare? Lei lo sa meglio, è la padrona di casa. Sicuro, non sono un esperto nel mettere le piastrelle, ma guadagno bene, si può assumere un professionista. Certo, di domenica voglio riposare, e lei pure riposi, invece di cercare lavori che si sono ben nascosti. Perché guardare dalle finestre altrui e interessarsi di chi vive come? Siamo tutti diversi per carattere e per ritmo nel lavoro. Non capisco perché la Coniglietta vuole divorziare?” – Giovanni sospirò, seduto davanti al televisore, si grattò la testa e si quietò.
Isabella portava ogni sera
E così, nella quiete della loro casa sotto il cielo toscano, Irina comprese che la vera fortuna non era nelle mani rapide o nelle parole imperiose, ma in quel cuore paziente che sapeva amare senza condizioni.
Il mistero di un uomo fra tanti epiteti e le sue malefatte.
