Il momento inaspettato di un chirurgo: la verità su una vecchia signora in attesa

Era un giorno feriale ordinario nella sala d’attesa dell’ospedale Gemelli di Roma. Le persone erano immerse nei loro pensieri vaganti — alcuni scivolavano tra le app del telefono, altri sussurravano conversazioni ovattate, altri ancora fissavano il mosaico pavimentale come se contassero i minuti attraverso le tessere. Infermiere passavano come ombre frettolose, medici chiamavano nomi con voci eteree, tutto fluiva in una strana core
Il Policlinico Gemelli a Roma scivolava nella sua routine quotidiana. La sala d’attesa era un mosaico di preoccupazioni silenziose: chi scivolava il pollice sugli schermi, chi mormorava parole soffocate, chi fissava il pavimento di marmo lucido contando i minuti. Infermiere passavano come ombre frettolose, dottori chiamavano nomi con voci impersonali. Poi, un’improvvisa quiete cadde. La porta si aprì, rivelando una vecchia signora. Indossava un cappotto liso, sbiùdito dalle stagioni, e stringeva una borsa di cuoio antico con nodose dita ossute. Il suo sguardo, calmo ma segnato da una stanchezza millenaria, sembrava venire da un altro tempo.

Sguardi si incrociarono. Sussurri salirono tra i più giovani:
“Sa dov’è finita?”
“Avrà perso il filo?”
“Avrà pure i soldi per la visita? Guarda com’è ridotta…”

Immobile, la signora raggiunse una sedia nell’angolo come un relitto approdato in un porto troppo luminoso. Non smarrita, solo estranea a quel mondo sterilizzato di acciaio e bit.

Dieci minuti, forse un eterno secondo sognato nel sogno, e la porta del blocco operatorio si spalancò con un soffio d’aria fredda. Entrò il Dottor Riccardo Russo, un chirurgo il cui nome risplendeva sulla targa d’onore all’ingresso. Alto, ieratico nella sua tunica verde da battaglia, ignorò la sala. Si diresse dritto verso la vecchia signora e, con un inchino lieve ma profondo, posò una mano rispettosa sulla sua spalla sottile.
“Mi perdoni il ritardo,” disse, la voce un filo di seta tesa nell’aria irreale. “Ho bisogno urgente del suo consiglio, professoressa. Mi sono perso in un labirinto.”

Un gelo improvviso paralizzò la sala. I sussusurri morirono. Persino il ronzio delle luci al neon sembrò fermarsi. Quell’uomo, inseguito dai giornalisti, si piegava con devozione quasi sacra dinanzi a quella figura dimessa.

L’impiegata alla reception, una bionda con lo smalto scrostato, sbottò in un soffocato riconoscimento:
“Aspetta… Ma è la Professoressa Livia Conti! Quella che dirigeva la chirurgia qui… vent’anni fa… in questo stesso ospedale…”

Ecco che il puzzle onirico si ricompose. Non era una derelitta. Era un monumento vivente. La leggenda che aveva salvato vite quando i bisturi erano solo metallo e le mani l’unico strumento. Il chirurgo acclamato che le stava davanti, umile, era il suo allievo. L’aveva convocata per un caso che sfuggiva alla certezza, sapendo che solo il suo sguardo antico poteva vedere ciò che le macchine moderne accecavano.
Lei sollevò gli occhi, due laghi profondi in un volto di pergamena, e sussurrò:
“Allora, andiamo a vedere insieme.”
Gli sguardi che prima ridevano adesso si abbassarono nel sogno, improvvisamente pesanti come pietre.

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