Il Nipote Ha Preso Possesso della Stanza

**Diario personale**

Stamattina ero in cucina, affacciata alla finestra, quando ho visto una vecchia Fiat Panda entrare nel cortile. Ne suo uscì un ragazzo alto, con una maglietta stropicciata e i jeans, che estrasse dal bagagliaio due grandi zaini e una borsa da palestra.

«Eccolo arrivato», mormorai tra me e me, asciugandomi le mani sul grembiule prima di andare ad accoglierlo.

Marco è cresciuto. L’ultima volta che l’avvistai aveva quattordici anni, un ragazzino magrolino con le orecchie a sbarra. Ora, davanti alla mia porta, c’era un uomo, anche se un po’ spaesato.

«Zia Marina?», chiese esitante non appena aprii.

«Ma certo, sono io! Entra, entra, Marco! Santo cielo, quanto sei diventato grande!» Lo abbraccai, sentendo addosso a lui l’odore della strada e di un dopobarba troppo economico. «Vieni, accomodati nella tua stanza. Sarai stanco, vero?»

«No, tutto bene. Grazie per avermi ospitato. Non resterò a lungo, giusto il tempo di trovare un lavoro e un alloggio mio», disse mentre si guardava intorno nell’ingresso, spostando il peso da un piede all’altro.

Annulai, ma dentro di me già si insinuavano i dubbi. Le parole sono una cosa, i fatti un’altra. Mia sorella, la madre di Marco, era sempre stata brava a promettere mari e monti, per poi sparire per mesi.

«Vieni qui», lo guidai verso quella che fino al giorno prima era stata la mia stanza dello studio. Scrivania, librerie, la mia poltrona preferita vicino alla finestra—avevo dovuto spostare tutto in camera da letto per fare spazio a mio nipote.

Marco si fermò sulla soglia.

«Senti, magari posso dormire in salotto sul divano? Non voglio darti fastidio.»

«Ma che dici! Un giovane ha bisogno dei suoi spazi», risposi, anche se dentro di me qualcosa si strisciava. Vent’anni trascorsi ad organizzare quella stanza, ogni oggetto aveva un posto preciso, una storia.

Appoggiò gli zaini a terra, osservando l’ambiente.

«E tu dove lavorerai adesso? Qui c’era la scrivania.»

«L’ho spostata in camera da letto. Non è un problema», cercai di dire con tono allegro, ma la voce mi tremò leggermente.

Lui non sembrò accorgersene, già intento ad aprire la cerniera di uno zaino.

«Posso sistemarmi un po’? È tutto spiegazzato dopo il viaggio.»

«Certo! Intanto preparo la cena. Cosa ti piace?»

«Mangio di tutto, non sono schizzinoso», sorrise, e in quel sorriso riconobbi i tratti di mio fratello. «Solo, zia, non preparare troppo. Sono stanco, e domani mattina inizio subito a cercare lavoro.»

Annuii e tornai in cucina, ma alle mie spalle già sentivo rumori di mobili spostati. Marco non sembrava intenzionato a mantenere la disposizione che gli avevo lasciato.

Mentre preparavo le polpette, ripensai alla chiacchierata con la vicina, Nina.

«Sei sicura di fare la cosa giusta?», mi aveva chiesto, sbirciando verso il mio appartamento. «I giovani d’oggi… oggi il nipote, domani porta gli amici, poi una ragazza. E chissà, magari vorrà sposare pure qui.»

«Ma che dici, Nina! È famiglia. Il figlio di mio fratello.»

«Famiglia, famiglia», borbottò. «E dov’era questa famiglia quando stavi male? Quando sei stata in ospedale dopo l’operazione?»

Allora quelle parole mi erano parse ingiuste. Ma ora, ascoltando Marco spostare qualcosa nella mia ex-studio, non potevo fare a meno di domandarmi se avesse ragione.

«Zia Marina!», mi gridò dalla stanza. «Posso spostare la TV da me? Starebbe meglio lì.»

Mi bloccai con il mestolo in mano. La televisione era in salotto da quindici anni, la guardavo sempre seduta sulla mia poltrona.

«E io come faccio a vederla?», chiesi con cautela.

«Puoi guardarla in camera tua. O venire da me, la vediamo insieme», rispose spensierato.

Mi morsi il labbro. Entrare nella mia stanza solo con il suo permesso? Guardare la TV sdraiata sul letto, come un’inferma?

«Sai una cosa, lasciamola lì per ora. Ne riparleremo», dissi con tono pacato.

Dalla stanza arrivò un sospiro irritato, ma lui non tornò sull’argomento.

A cena, Marco mi parlò dei suoi progetti. Avrebbe lavorato in un’impresa edile, aveva esperienza, «le mani d’oro», come disse. Lo stipendio sarebbe stato buono, in un mese o due avrebbe trovato un alloggio.

«E i tuoi studi?», domandai. «Tua madre diceva che frequentavi l’istituto tecnico.»

Fece una smorfia.

«Lasciato. Troppa teoria, mi annoiava. Preferisco lavorare con le mani.»

«Peccato. L’istruzione torna sempre utile.»

«Tu lavori in contabilità, hai il diploma, e quanto guadagni?», scrollò le spalle. «Io in cantiere in una settimana quello che tu in un mese.»

Tacqui. Parlare del fatto che lavoravo non solo per i soldi, che amavo il mio lavoro, sarebbe stato inutile. I giovani ragionavano diversamente.

Dopo cena, lui sparì subito in camera, lamentandosi della stanchezza. Io sparecchiai, lavai i piatti e mi sedetti in salotto con un libro. Ma non riuscivo a leggere—la musica proveniente dalla sua stanza, non altissima ma insistente, mi disturbava.

Pensai più volte di bussare per chiedergli di abbassare il volume, ma poi desistevo. Era il primo giorno, era stanco, doveva abituarsi.

La mattina dopo mi svegliai con l’acqua della doccia che scorreva. Erano le sei e mezza. Di solito mi alzavo alle sette e mezza, facevo colazione con calma e mi preparavo per l’ufficio. Ora invece mio nipote occupava il bagno proprio quando ne avevo bisogno io.

Bussai alla porta.

«Marco, devo prepararmi anch’io!»

«Cinque minuti, zia!», rispose.

Ma i cinque minuti diventarono venti. Quando finalmente uscì, dovetti lavarmi in fretta e uscire di corsa, quasi senza colazione.

«Sei cupa stamattina», notò la collega Gabriella. «Non hai dormito?»

«È arrivato mio nipote. Si sta sistemando», risposi breve.

«Per molto?»

«Dopo che trova lavoro e una casa, dice.»

Gabriella scosse la testa con comprensione.

«Conosco quei coinquilini “temporanei”. Un cugino di mia sorella è rimasto un anno e mezzo. Anche lui stava sempre per trovare qualcosa.»

Passai la giornata pensando a casa. Chissà che faceva Marco. Diceva di aver cercato lavoro, ma quando ero uscita dormiva ancora. Pur avendo giustificato la cosa con la stanchezza del viaggio.

Tornata a casa, scoprii che non era uscito. Nel lavello c’erano piatti sporchi, sul tavolo briciole e una scatoletta di tonno vuota.

«Marco!», lo chiamai.

«Arrivo!», rispose dalla stanza.

Sbucò in mutande e canottiera, spettinato e assonnato.

«Hai cercato lavoro?», chiesi, indicando i piatti.

«Sì, domani mattina vado. Oggi avevo mal di testa, volevo riposarmi», sbadigliò. «Zia,Mentre sistemavo la mia stanza tornata finalmente libera, con un sospiro di sollievo mi resi conto che la pace di una casa è un tesoro che non avrei più dato via così facilmente.

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