Il prezzo della felicità

*Il Prezzo della Felicità*

Enrico giaceva sul divano, gli occhi socchiusi, ascoltando i suoni della casa e quelli che filtravano dalla strada. Attraverso i doppi vetri arrivavano i clacson ovattati, le sirene della polizia o dell’ambulanza. Nell’appartamento accanto litigavano, da qualche parte squillava un telefono, una porta sbatté…

Una volta amava starsene così, a immaginare in quale casa guardassero la televisione, in quale stessero discutendo, a quale piano si sarebbe fermato l’ascensore…

— Ancora a sognare? Hai fatto i compiti?

Enrico avrebbe giurato che non fosse un’allucinazione: aveva sentito la voce di sua madre, lontana ma viva. Trasalisse e aprì gli occhi. La stanza era vuota, la porta dell’ingresso socchiusa. Se in quel momento fosse apparsa lei, scendendo dal buio, non si sarebbe sorpreso ma solo felice. Ma sua madre non avrebbe mai più varcato quella soglia. Era morta una settimana prima. E quella voce era solo il dolore di un fantasma.

Enrico si sedette, i piedi nudi che affondavano nel morbido tappeto. «Impazzirò, se resto qui. Avrei dovuto prendere il biglietto di ritorno il giorno dopo il funerale, al massimo il secondo», pensò. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si prese la testa tra le mani e iniziò a dondolarsi.

Lo squillo improvviso del telefono lo fece sobbalzare; un gomito scivolò, la testa ciondolò in avanti. Si alzò e afferrò il cellulare dal tavolo, senza neanche guardare lo schermo. Lo sguardo gli cadde su un foglietto: «Figlio mio, cuore mio…»

— Enrico, sono zia Marta. Come stai? È dura, vero, essere lì da solo? Perché non vieni da me?

— No, tutto bene. — Ripose il telefono, piegò la lettera e la infilò in un cassetto.

Non poteva restare ancora da solo. Ormai sentiva voci. Riprese il telefono, scorse la rubrica. «Beppe, il mio vecchio amico dell’università. Lui è quello che mi serve!»

— Beppe, ciao! — esclamò Enrico quando sentì la voce dell’amico.

— Ciao! Ma chi…

— Non mi riconosci? Hai dimenticato in fretta un vecchio amico. Non me l’aspettavo da te.

— Aspetta. Enrico?! Sei tornato? — gridò Beppe, entusiasta.

— Sì, ma a quanto pare non mi aspettavi e mi avevi dimenticato, — borbottò Enrico, offeso.

— Ma che dici, testa dura! Non mi aspettavo, questo sì. Dove sei?

— A casa, — disse Enrico, serio.

Dal tono improvvisamente mutato dell’amico, Michele capì subito che qualcosa era successo.

— Tua madre?

— Morta. L’ho sepolta una settimana fa. Sono già passati nove giorni.

— Mi dispiace. L’ho vista sei mesi fa. Stava male, dimagrita. Non l’ho riconosciuta subito. Quanti giorni resti ancora?

— Tre.

— Vuoi che venga da te? O meglio, vieni da noi. Starai impazzendo lì da solo.

— Da voi? — ripeté Enrico.

— Sì, mi sono sposato. Con Alice. Ci credi? È qui accanto, ti saluta e ti invita anche lei. Vieni subito. Arrivi giusto per pranzo. Ah, ho cambiato indirizzo. Abbiamo preso un mutuo per l’appartamento.

— Dimmelo, — disse Enrico, pratico.

«Mio Dio, sposato. Alice lo adorava dal primo anno, lui invece se la faceva con la ragazza del momento finché non gli ho aperto gli occhi…» Enrico fece in fretta e chiamò un taxi.

Per strada chiese all’autista di fermarsi a un negozio. Comprò cognac per sé e per Beppe, vino per Alice, una scatola di cioccolatini e un vassoio di affettati.

Non aspettò l’ascensore, salì a piedi fino al sesto piano. Gli ultimi due giorni non era uscito. Fece bene a muoversi. Passando davanti a un appartamento al terzo piano, sentì un lamento sordo, forse un bambino o un cagnolino. Si fermò.

— Ehi, chi c’è? — chiese, premendo l’orecchio alla porta.

Il lamento cessò. Enrico aspettò un attimo, stava per ripartire quando risuonò di nuovo, monotono e prolungato.

— Chi piange? — domandò.

— Non piango, canto, — rispose una vocina infantile.

— Perché canti davanti alla porta?

— Aspetto la mamma.

— Dov’è? Sei solo? — chiese Enrico.

— La mamma è andata all’ospedale dalla nonna e mi ha chiuso dentro. Sono malato.

— Chiuso dentro? Quanti anni hai?

— Cinque. E tu chi sei?

— Sono Enrico. Passavo di qui e ho sentito la tua canzone.

— Io sono Teo. Vuoi che ti reciti la poesia di Babbo Natale?

— Certo, — acconsentì Enrico.

Lo ascoltò sorridendo. Da piccolo ne aveva imparata una simile, ma l’aveva dimenticata.

— Per la poesia c’è un regalo. Ma come te lo passo? Sei chiuso dentro. Ora vado un attimo da un amico e torno da te. Va bene?

— Che regalo? Sei Babbo Natale?

— No. Aspettami, — disse Enrico, ripartendo.

Fu Beppe ad aprire, afferrandolo subito in un abbraccio.

— Ciao, vecchio mio! Da quanto non si sentiva più parlare di te.

— Lascialo almeno togliersi il cappotto, — disse una voce femminile.

Enrico si scostò e vide Alice sulla soglia del salotto. Era cambiata, più bella.

— Entra, ci siamo trasferiti da poco, non è ancora tutto a posto. — Nella voce di Beppe c’era orgoglio. Guarda, pareva dire, e invidiami.

Enrico si guardò intorno, fischiò.

— Wow! Non fare l’umile. È splendido.

— Pieni di debiti, ma lontani dai genitori. Stiamo pensando a un erede. — Michele splendeva come un soldo lucido.

— Sedetevi a tavola, — ordinò Alice.

Bevvero, mangiarono, si scambiarono notizie.

— E tu, sposato? Hai figli? — chiese Alice.

Ed ecco che Enrico si ricordò del bambino.

— Sentite, sembrerò ingrato e maleducato, ma potrei avere dei cioccolatini e mandarini? C’è un bambino al terzo piano che mi ha recitato una poesia. Gli ho promesso un regalo. Un ragazzino serio, chiuso in casa da solo.

— Certo. — Alice preparò un sacchetto con dolci e frutta.

Enrico suonò al terzo piano. Nessuno piangeva più dietro la porta. Il lucchetto scattò, la porta si aprì, e vide una ragazza carina. La riconobbe, ma il nome gli sfuggiva.

— Tu? — Anche lei lo riconobbe.

Passi frettolosi, e accanto a lei comparve il bambino. Proprio come se lo era immaginato: sveglio, con grandi occhi dolci.

— Ti ho portato il regalo. Scusa, non ho trovato un giocattolo, — sorrise Enrico, porgendogli il sacchetto.

Quello lo fissò serio, dal basso verso l’alto.

— Posso entrare? — chiese Enrico, alzando gli occhi sulla ragazza.

— Perché?

— Be’… Per parlare, è passato tanto tempoEnrico la guardò negli occhi, sentendo il cuore battere forte, e sussurrò: “Ho lasciato il mio biglietto per la Siberia sul binario perché la felicità che cercavo era qui, con te e Teo, e ora non me ne andrò mai più”.

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