Io ho sempre avuto la sensazione di vivere su una corsia di riserva, come se il treno della vita fosse già partito da tempo e io corressi dietro a un rimorchio. La mia routine era fatta di sveglia presto, autobus per il magazzino di materiale da costruzione ai margini del nostro paesino di Campoli, rotoli di isolante da scaricare, fatture da sistemare, pranzo a base di minestra di legumi e riso in mensa aziendale, poi la televisione la sera e i rari incontri con gli amici al bar Il Gallo vicino alla stazione degli autobus. Avevo trentatré anni, mi chiamavo Andrea, e tutti mi vedevano come qualcuno che aveva la vita più o meno in ordine.
Affittavo una stanza in un vecchio palazzo di mattoni di fronte alla scuola elementare dove, da bambino, avevo fatto i compiti. La padrona di casa, Signora Maria, una pensionata magra e chiacchierona, abitava nella stanza accanto e non perdeva occasione per raccontare i suoi mali e i prezzi delle medicine in farmacia. Io la ascoltavo a mezza voce, annuivo, ma la mia mente vagava altrove. Sul muro sopra il letto pendeva un vecchio poster sbiadito con la sagoma di una grande città: grattacieli di vetro, un ponte, il fiume, le luci notturne. Lo avevo comprato appena finito il servizio militare, al mercato, e lavevo portato con me in tutti gli appartamenti in affitto. A volte, quando chiudevo gli occhi, mi immaginavo a passeggiare per quelle strade, sconosciuto, libero, come un turista o un protagonista di un film.
La realtà era più semplice. Al magazzino ero solo un magazziniere, lo stipendio arrivava con ritardo, il capo alzava la voce e gli amici parlavano sempre più spesso di mutui e di finanziamenti. Una sera, mentre la Signora Maria si lamentava ancora del suo pressione alta, mi accorsi di non sentirla più. Dentro di me stava nascendo una decisione, ancora senza parole, ma ferma come un prurito.
Una settimana dopo comprai il biglietto del treno per la capitale. Al lavoro dissi che mi dimissavo, che avevo trovato unopportunità migliore nella logistica. Il capo sbuffò, scrollò le spalle e mi augurò buona fortuna. Alla padrona spiegai che partivo per lavoro, lei agitò le mani ma non protestò. Avevo poche cose: due valigette con vestiti, un vecchio portatile, qualche libro, e il poster arrotolato che sistemai sopra tutto.
Sul treno mi sedei vicino al finestrino e guardai scorrere i campi, i villaggi sparsi, le stazioni di servizio. Nella testa si dipingevano scenari di un futuro diverso. Trovare un lavoro magari prima come corriere, poi qualcosa di più stabile affittare una stanza, passeggiare per il centro, entrare in caffè, assistere a concerti. Chissà, magari incontrare qualcuno. Nei grandi centri, a quanto pare, le cose succedono da sole.
Allalba, il treno si fermò a Roma. Premetti il capo al vetro, osservando gli edifici grigi, i cartelloni pubblicitari, un cielo plumbeo. Sul binario mi colpì il freddo umido, lodore di ferro dei binari e il profumo di caffè economico dei distributori. La gente correva, trascinava valigie, parlava al cellulare. Nessuno mi aspettava.
Uscito in piazza davanti alla stazione, rimasi fermo per un attimo, circondato da auto, autobus, altoparlanti che annunziavano gli orari, gente che mi faceva strada come se fossi un ostacolo. In tasca cera la conferma di una stanza in un ostello economico nel centro, dove avrei dovuto arrivare con la metro. Estrassi dalla borsa una mappa delle linee, stampata a casa, con colori intrecciati e nomi di stazioni sconosciuti, tutti da decifrare.
Scendendo nella metro, mi spinse la folla. Il vagone era pieno, caldo, impregnato di sudore e profumo di profumo. Le voci si mescolavano in un brusio. Mi aggrappai al corrimano, leggendo i nomi delle fermate sui pannelli. Dentro di me cresceva lentusiasmo: Ecco, sono una puntina minuscola in una città enorme, e tutto comincia ora.
Lostello era in un vicolo vicino al Ghetto. Un edificio vecchio, intonaco scrostato, porta di ferro con una serratura a combinazione, corridoio stretto di linoleum e odore di detersivo. Il receptionist, un giovane snello con i capelli raccolti in una coda, mi registrò, mi consegnò la chiave del box e mi mostrò il letto in una stanza condivisa da otto persone. Ogni letto aveva una tenda, sopra il comodino una piccola lampada.
Nei primi due giorni giravo per Roma, cercando di memorizzare le vie, consultando annunci di lavoro sul cellulare, telefonando. Mi risposero spesso con ti richiameremo o mi chiedevano di inviare il CV via email. Le gambe si facevano pesanti, il portafoglio si sgonfiava. La sera, nellostello, mi sdraiavo sul letto, ascoltavo il russare del compagno, le risate dei ragazzi nella stanza accanto, e pensavo che finché le cose andassero così, era tutto a posto.
Il terzo giorno andai a un colloquio in una società di logistica, situata in un moderno complesso vicino al Tevere. Laccoglieva una donna in una camicetta rigorosa, mi fece alcune domande, vide il mio curriculum e promise di dare una risposta entro una settimana. Uscito dalledificio, mi fermai un attimo ai vetri a guardare lacqua, poi proseguii a piedi verso la metro.
Iniziò a piovere leggermente; alzai il colletto della giacca e accelerai il passo. Allangolo di una vetrina con quadri astratti, mi fermai. Dentro cera una galleria darte: pareti bianche, luce brillante, gente con calici di vino. Attraverso il vetro videvo una donna alta in un vestito nero, che rideva spensierata. Mi fermai, come se avessi davanti la televisione. Nella mia città simili mostre cerano solo nei centri culturali, e persino lì erano vecchie e impolverate.
Stavo per riprendere il cammino quando la porta della galleria si spalancò e uscì quella donna. Accese una sigaretta, coprendo la fiamma con la mano. I capelli chiari, raccolti in un disordinato chignon, al collo una sottile catena. Notò che la guardavo e sorrise appena.
Entra disse. È linaugurazione, ingresso libero.
Rimasi un attimo indeciso, poi mi avvicinai alla porta.
Non sono vestito per loccasione balbettai, guardando i miei jeans e la giacca.
Tranquillo scrollò le spalle, facendo cadere la cenere. Qui non cè dress code. Io sono Chiara. E tu?
Andrea.
Piacere, Andrea. Vieni, il pittore sarà felice di avere un occhio in più.
Mi afferrò per il gomito, leggera come se mi conoscesse da anni, e mi trascinò dentro. Lodore di vino mescolato a quello di vernice fresca mi colpì. La gente chiacchierava a gruppi, rideva, osservava telecamere di grandi telecamere. Sui muri grandi telepitture mostrano sagome sfocate di persone in città, luci, finestre. Mi fermai davanti a una di quelle telepitture e mi sembrò di vedermi da fuori.
Ti piace? chiese Chiara, accanto a me, guardando il quadro.
Strano, un po inquietante dissi onestamente.
È normale. La paura è una reazione sincera. Lei si voltò verso di me. Sei qui da solo?
Sì. Sono appena arrivato, vengo da un piccolo paese.
Capisco negli occhi di Chiara brillò curiosità. E cosa fai in questa città dura?
Lavoro cerco qualcosa. Prima ero magazziniere.
Romantico rise. Io sono curatrice, lavoro con artisti, progetti, gallerie. Questo è il mio regno.
Sei fortunata ad essere entrata aggiunse, indicando lo spazio intorno. Oggi è unimmersione leggera nella cultura.
Un uomo in camicia nera, con una barba grigia, si avvicinò e Chiara lo presentò come lartista della mostra. Scambiarono qualche frase, lartista mi strinse la mano e poi si allontanò. Chiara rimase con me.
Hai sempre sognato di venire qui? chiese, versandomi un bicchiere di vino bianco in un bicchiere di plastica.
Da tempo. Ma non è mai successo esitai. Non andava per via mia.
Ora è andato sorrise. Cosa vuoi trovare qui?
Scrollai le spalle, arrossendo.
Non lo so, qualcosa di diverso. Non come a casa.
Lo troverai disse. Domani, se vuoi, ti porto a un afterparty. Qui le cose si muovono per conoscenze.
Io esitai. Il ricordo della Signora Maria, con le sue parole sui grandi centri che ingannano la gente, mi tornò in mente. Ma Chiara era lì, sicura, viva, quasi fuori dal mondo. Annui.
Va bene.
Ci diamo un taxi verso un vecchio palazzo trasformato in club. Dentro cè buio, musica elettronica, luci lampeggianti. La gente beve, danza, fuma sul corridoio. Chiara mi presenta a vari volti, nomi che scivolano dalla mia memoria. Mi servono vino, poi qualcosa di più forte. La testa si fa leggera, i confini si sfumano.
Vedi quel tizio al bar? sussurra Chiara, avvicinandosi. È un collezionista. Compra giovani artisti ancora sconosciuti. Vuole tutto impeccabile, quasi convincente.
Parla di gallerie, di sovvenzioni, di sponsor. Di come tutto si regge su contatti, su impressioni, su storie che sai raccontare su te stesso. Io ascolto, cercando di non perdermi in quel flusso.
Verso lalba esco, laria è umida, il selciato freddo. Chiara mi segue, accende una sigaretta.
Non ti penti, vero? chiede.
No. È strano, ma… interessante.
Abituati. Espira fumo. La città ti morde o ti ingoia, dipende da come impari a morderla.
Sai, mi piaci. Sei autentica, è raro. Ho unidea. Potresti aiutarmi e allo stesso tempo trarne beneficio.
Mi sorrido, ma resto allerta.
Che idea?
Non ora, sei stanco. Domani ti scrivo. Dammi il numero, non sparire. Qui è facile scomparire.
Mi dà il cellulare, lo segna. Poi se ne va.
Il giorno dopo mi sveglio nellostello con il capo che fa male. Ricordo frammenti della notte: luci, volti, parole su finanziamenti. Sul comodino vibra un messaggio di Chiara: Stasera passa in galleria, cè da parlare. Continuo a chiamare offerte di lavoro, vado a un altro colloquio in un magazzino. Mi propongono turni notturni poco pagati; dico che ci penso. Il denaro scarseggia, il lavoro stabile non arriva.
La sera mi reco alla galleria. È quasi vuota. Chiara è al tavolo con un laptop, occhiali, i capelli raccolti in una coda.
Ciao, eroe della notte mi accoglie, togliendosi gli occhiali. Come va la testa?
Bene.
Siediti. Indica uno sgabello alto. Ho una proposta un po fuori dal comune.
Mi siedo, le spalle si tendono.
Hai detto che sei a corto di soldi, giusto?
Annuisco.
Cè un progetto. Vendiamo opere di un pittore in modo silenzioso. Serve una figura che faccia da compratore fittizio, firmi il contratto, mostri che tutto è pulito. I soldi e i quadri li gestiscono altri, tu sei solo la copertura.
Resto in silenzio, non capisco.
È legale? chiedo.
È un trucco comune, nessun problema. I soldi passano sul tuo conto, poi li ridistribuiamo. Io mi occupo della burocrazia, tu ricevi una buona somma. È quasi tre volte quello che guadagnavi al magazzino.
Perché io?
Perché sei nuovo, non hai legami, sei un foglio bianco. E perché ti fido.
Il suo tono è calmo, ma cè un filo dacciaio nella voce. Sentivo la voce della Signora Maria avvertirmi dei pericoli dei grandi centri; ora la pressione è qui, dentro di me.
Devo pensarci dico.
Hai un giorno. Domani devo dare risposta. Se non vuoi, basta dirlo. Non mi piace chi sparisce.
Esco, ripiego la mappa della metro in tasca, mi siedo su una panchina e guardo il foglio come se fosse un labirinto. I pensieri mi assalgono: la vita di provincia, il magazzino freddo, gli amici che parlano di debiti, la stanza con il poster, le strade deserte di notte. Ora qui, a Roma, cè un bivio.
La sera, nella stanza dellostello, resto sveglio. Gli altri guardano film sui laptop, ridono, litigano. Rigo il pensiero su Chiara: la sua voce non mentiva, ma non era più la semplicità a cui ero abituato. Tutto era più complesso.
Al mattino, il telefono vibra: Andiamo in galleria alle tre, porta il passaporto. Accetto. Il giorno intero cammino come in una nebbia. Alle tre arrivo alla galleria; Chiara mi accoglie in un completo elegante, capelli raccolti. Il suo sguardo è concentrato.
Andiamo mi dice, prendendomi per il gomito. Ti spiego tutto.
Ci dirigiamo a un piccolo ufficio nel quartiere finanziario. Dentro cè un uomo di mezza età, con un dolce di cashmere, occhi attenti. Chiara lo presenta come Dmitri.
Allora, Andrea inizia, sfogliando dei fogli. Il meccanismo è semplice. I soldi della nostra società arriveranno sul tuo conto, tu firmi il contratto di acquisto, poi trasferisci le opere al nostro partner. Nessun problema fiscale, ti faccio tutto io. Riceverai una commissione buona.
Non so cosa chiedere, ma mi limito a domandare:
E le tasse?
Lui sorride, come chi spiega laritmetica a un bambino.
Abbiamo previsto tutto. Il denaro sarà presentato come un prestito, lo restituisci più tardi. Non ci saranno intoppi. Io me ne occupo, ti assicuro.
Chiara aggiunge, senza perdere il sorriso: È una pratica comune, servono volti puri. Tu sei il volto giusto.
Firmai tre fogli, le mani tremanti. Poi andammo in banca ad aprire un conto, ottenendo una carta. Dopo unora, sul cellulare comparve un messaggio: 12.000 accreditati. Dmitri disse: Ben fatto, domani passa la consegna delle opere.
Chiara mi accompagnò alla metro.
Vedi? Non è così spaventoso commentò. Ce lhai fatta.
E se balbettai. Se qualcosa va storto?
Non preoccuparti Alla fine, capii che il prezzo della libertà era pagare il rischio di non sapere più chi ero, ma almeno avevo iniziato a vivere davvero.





