Il prezzo di un orgoglio: come vent’anni di silenzio si sono sciolti in un abbraccio
Lavoravo alle poste dai tempi in cui si leccavano i francobolli e le lettere profumavano ancora di colonia. La gente cambiava, la tecnologia avanzava, ma io rimanevo fedele agli scatoloni della posta e alle mie abitudini. Sapevo riconoscere una lettera che portava notizie di lutto o un invito a un battesimo. Ma quella lettera, arrivata in una grigia giornata di novembre, mi fece vacillare.
Una busta grigia. Senza indirizzo del mittente. Una calligrafia dolorosamente familiare, come strappata dai miei ricordi. Quella che non vedevo da… vent’anni.
Mi sedetti sul bordo del tavolo e, con le dita tremanti, strappai la carta. Dentro, un solo foglio. E una sola frase:
«Mamma, se ti ricordi ancora di me… mi sposo. Domani. Vieni, se puoi. Beatrice.»
Le gambe mi cedettero. Il cuore batteva forte come in gioventù. Beatrice… Mia figlia. Quella che se n’era andata di casa sbattendo la porta vent’anni prima.
Allora, tanto tempo fa, tutto era semplice e terribile. Beatrice mi aveva detto che voleva sposare Luca. E io non l’avevo accettato. Senza un lavoro stabile, senza prospettive. Un sognatore. Un artista. Niente di buono per una famiglia.
“Se fai questo passo, puoi dimenticarti la strada di casa mia,” le dissi.
“Allora addio, mamma,” mi rispose piano.
Da allora, non ci siamo più parlati. Mai una lettera. Sapevo che Beatrice aveva avuto un figlio. Sapevo che si erano trasferiti in un’altra città. Ma non ci andai mai. Non la felicitai. Non perdonai. E non chiesi perdono.
E ora, ecco quella lettera. Senza rimproveri. Senza accuse. Solo un invito. Come un’occasione.
Passai tutta la notte insonne. Seduta sul letto, a litigare con me stessa. Cosa le dirò? Come la guarderò negli occhi? E se mi manda via? Dopotutto, è stata lei a partire…
Ma l’alba portò con sé un’altra sensazione: la stanchezza del mio orgoglio. E una nostalgia straziante. Mi alzai, indossai il mio cappotto più bello, mi legai un foulard come facevo da giovane, e uscii.
Quando arrivai alla Casa del Popolo, davanti all’ingresso c’era una ragazza in vestito bianco. Guardava lontano, come se aspettasse un miracolo. E quando mi vide, il suo viso si illuminò.
“Mamma?”
Non riuscii a dire una parola. Solo annuii. E un attimo dopo, fui stretta in un abbraccio—vero, forte, caldo. Come si abbraccia chi è mancato per una vita intera.
“Perdonami, Beatrice,” sussurrai. “Ho aspettato troppo.”
“Anch’io, mamma,” rispose lei. “Ma l’importante è che tu sia qui.”
A volte, per ricominciare, non servono grandi parole. Basta un passo. Una lettera. E l’amore che ha aspettato in silenzio tutto questo tempo.