Il Redentore

Il Salvatore

Mancavano solo cento chilometri quando i fari dell’auto illuminarono una vettura rossa ferma sul ciglio della strada, con il cofano sollevato. Accanto, un giovane agitava le braccia con fare disperato. Fermarsi su una strada deserta di notte era pura follia, ma il cielo cominciava a schiarirsi all’orizzonte, segno che l’alba non era lontana, e ormai mancava poco. Davide fermò la macchina e scese. Non ebbe neanche il tempo di fare due passi che un colpo violento alla nuca lo fece cadere a terra.

Riprese i sensi sentendo una mano frugargli nelle tasche. Cercò di alzarsi, ma un corpo pesante gli si abbatté addosso, schiacciandolo. Probabilmente gli aggressori erano più di uno, perché un calcio gli si piantò nelle costole. Un dolore acuto gli strappò un urlo.

Immediatamente, i colpi si abbatterono su di lui da ogni parte. Lo presero a calci. Davide si raggomitolò a terra, stringendo le ginocchia al petto per proteggersi, le braccia avvolte attorno alla testa. Un altro colpo alle costole destre lo trafisse come una lama, e perse conoscenza.

Quando riaprì gli occhi, sentì un lamento flebile vicino a sé. Pensò fosse il suo. Ma ormai nessuno lo picchiava più. Si mosse appena, e un naso umido gli sfiorò la guancia. Davide socchiuse gli occhi e vide il muso vigile di un cane che lo fissava. Provò ad alzarsi, ma un dolore lancinante al fianco gli tolse il fiato. “Costole rotte,” capì. I pensieri gli giravano lentamente in testa, come se il cervello fosse imbottito di ovatta. E di nuovo, il cane guaì.

Alla volta successiva che riprese conoscenza, sentì il rombo di un motore e il dondolio dell’auto sulle buche della strada.

“Sei sveglio? Siamo quasi in città, resisti ancora un po’,” sentì una voce che non riuscì a identificare, né se fosse di uomo o di donna.

Davide non riuscì ad aprire le palpebre pesanti. E non aveva nemmeno la forza di provarci. Una stanchezza profonda lo trascinò nuovamente nell’oblio. Riemerse da quel buio per uno scossone. Ora lo stavano trasportando da qualche parte. Aprì un attimo gli occhi e li richiuse subito, accecato dalla luce. Una fitta insopportabile gli attraversò la fronte.

“Ti sei ripreso,” riconobbe una voce femminile.

Davide socchiuse nuovamente gli occhi. Tra il luccichio delle lampade, distinse un volto sfocato. La testa gli girava, e una nausea improvvisa lo assalì. Il movimento cessò. Il volto si avvicinò, diventando più nitido. Un vecchio con una barba bianca a punta lo osservava con attenzione.

“Come ti chiami, ragazzo? Ricordi cos’è successo?” La voce gli arrivava come da lontano.

“Davide Rossi. Mi hanno…” Le labbra gli si muovevano a fatica, ma era comprensibile.

“Già. Te l’hanno fatta grossa.”

“La macchina…” sussurrò Davide. Ogni respiro era una coltellata al fianco.

“Non c’era nessuna macchina vicino a te. Solo un cane. È lui che ti ha salvato. Riposati, anzi, dormi,” disse il vecchio con la barba a punta, e Davide obbedì, sprofondando di nuovo nel sonno.

Quando si svegliò, il mal di testa era diminuito e i pensieri erano più chiari. Intraudì voci ovattate accanto a lui.

“È sveglio. Ottimo. Mi senti? Sono il capitano Ferraro della polizia. Puoi parlare? Devo farti qualche domanda.”

Davide riuscì a rispondere, raccontando di essersi fermato sulla strada, dell’aggressione, del numero di targa della sua auto…

“È tuo il cane?”

“Io non ho un cane,” rispose Davide, sorpreso.

“Ma l’autista che ha chiamato l’ambulanza ha detto che un cane gli è sbucato davanti dal bosco, quasi sotto le ruote. Si è fermato, e il cane lo ha guidato fino al fossato dove giacevi. Dalla strada non si vedeva nulla. Senza di lui, saresti ancora lì. Ecco, firma qui.” Un foglio gli venne avvicinato al viso, e una penna gli fu infilata tra le dita. Davide firmò e lasciò cadere la mano sul letto, sfinito.

“Che mi è successo?” bisbigliò.

“Sei vivo, e questo è ciò che conta. Hai due costole rotte, una ferita alla testa, abrasioni e lividi ovunque.”

“Basta così per oggi. È stanco. Tornate domani, quando starà meglio,” disse la voce familiare accanto a lui.

E Davide sentì davvero un’estenuante stanchezza. Si addormentò di nuovo, docile.

Si risvegliò al buio. Sul soffitto danzavano ombre proiettate dagli alberi. Quel movimento gli fece girare la testa e gli provocò nausea. Chiuse gli occhi. Ma la mente era lucida. Ricordò tutto: la sosta sulla strada…

La volta successiva si svegliò al mattino. Dal finestra aperta entravano il sole e il canto allegro degli uccelli. Si sentiva molto meglio.

“Ecco, va bene. Riesci ad alzarti?” chiese il dottore con la barba a punta, sorridendo.

“Esatto. Piano.” Il medico lo aiutò a sollevarsi. “Bene. Adesso siediti. Riposati. Non ti gira la testa? Allora prova a mettere i piedi a terra. Bravo.”

Presto la stanza smise di girargli attorno, e Davide si guardò intorno. Una piccola stanza con pareti celesti, un comodino. Il dottore in camice bianco, con quella barbetta che lo faceva sembrare un contadino di una volta, lo sorvegliava premurosamente. Il petto gli era fasciato, impedendogli di respirare a fondo, ma il dolore era sparito.

“Ottimo. La prossima volta proveremo a stare in piedi,” annuì il medico.

E infatti, Davide ci riuscì. Con ogni passo, riacquistava le forze. Si avvicinò alla finestra. Davanti a lui si stendeva il parco dell’ospedale, con poche panchine lungo i viali stretti.

“Vedi? Laggiù, sotto l’albero? È il tuo cane. Ti aspetta,” disse un’infermiera alle sue spalle.

“Non ho un cane.” Davide si voltò.

“Pensavamo fosse tuo. Abbiamo provato a mandarlo via, ma non se ne va, ringhia. Sta lì tutto il giorno sotto le finestre. Gli portiamo gli avanzi della mensa. Non li tocca finché siamo presenti. Poi, quando ce ne andiamo, li mangia.”

Il cane era seduto sotto l’albero, osservando chiunque passasse. Davide non riuscì a rimanere troppo tempo in piedi e tornò a letto. Solo il giorno dopo uscì all’aperto.

Il cane lo vide, ma non si mosse. Aspettò che fosse Davide ad avvicinarsi.

“Sei tu che mi hai salvato? Grazie, amico.” Davide gli accarezzò la testa fra le orecchie, e la coda batté due volte per terra.

Camminarono insieme fino a una panchina e si sedettero. Il cane si accucciò poco lontano.

Rimasero così, a scaldarsi al sole, finché sul viale non comparve il capitano di polizia del giorno prima. Alla vista dell’uniforme, il cane si allontanò, ma non sparì.

“Buongiorno. Vedo che sta meglio. Non gli piacciamo, noi poliziotti,” osservò”Il capitano si congedò con un sorriso, e mentre Davide accarezzava il cane sotto il sole caldo, capì che il destino gli aveva regalato un nuovo inizio, e finalmente si sentì a casa.”

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