Avevo la fortuna di lavorare come segretaria dell’ingegnere capo, in una grande fabbrica a Bologna. Gli operai erano tanti, diversi per modi e destino. Ma una figura si distingueva: una donna che rubava lo sguardo. La chiamavano tutti Mariù, anzi, Silvia, ma il suo nome vero era Maria. Evitavano di usarlo mai.
Maria camminava a passi rapidi, come se volesse inseguire il tempo che sfuggiva. Le sue parole rimbombavano nei corridoi, perfino sopra i rumori dei macchinari.
Doveva accumularne chilometri ogni giorno. Era curiosa di tutto, accesissima, instancabile, presidente del consiglio di fabbrica. Ogni conflitto aveva la sua risposta.
Le piaceva sussurrare:
«Lasciate fare a me, qui si vince sempre».
La sua forza era leggendaria, come un fiume che non si ferma. La voce le era riconosciuta come “torrente”, ma in italiano, si chiamava “Maria, la battagliera”.
Maria era diretta, quasi ruvida, e il suo stile non rientrava nel bello: abiti colorati, ma disordinati, un viola acceso abbinato al giallo acceso. Ma le sue mani contavano fino al minimo dettaglio: smalto perfettamente conchiuso, unghie tritate in modo asimmetrico. Non aveva amiche, forse perché incompresa o pazza.
Io non la conoscevo, ma se ne parlava dappertutto.
Arrivò un nuovo ingegnere, Giorgio Bianchi, più giovane di me, sorprendentemente. Faceva colazione con thermos di thé e panini farciti, mentre io mi saziavo di insalata e Tic Tac. Mi invitò a cena ogni volta, con un’aria di indifferenza:
«La mia Elena deve pensare che mangio come un elefante», scherzava lui.
Accettai, mossa dal bisogno di nutrirmi e dalla curiosità.
Un giorno mi svelò la storia di Elena, sua moglie: tre figli, una famiglia numerosa. Il padre di Elena aveva otto fratelli, e lei era la seconda. Ogni notte dormivano in stanze sovrapposte come uccelli nello stesso nido. Elena aveva perso una figlia neonata: un malfunzionamento cardiaco. Subito dopo, arrivarono i figli maschi.
«Un periodo, però…», mi confessò lui, «ho tradito con una collega, giovane, straordinaria. Mi ha partorito una figlia, ma l’ha abbandonata. Elena urlava, ma alla fine ha deciso: ‘Checché ne pensi, accoglieremo la bambina’. L’abbiamo chiamata Daria.».
Mi distesi il nome come un velo su un tavolo. Da quel momento, Elena diventò una santa per me.
Un pomeriggio suonò il campanello. Era Maria, che entrò a passi di carica.
«Io sono la moglie di Giorgio. Maria, come no?», rivelò con voce frantumata.
Io tremavo, in piedi, pensando a un errore.
Lui uscì:
«Allora, Alessandra, questa è mia moglie. Ti abbiamo sistemato un pranzo. Con i nostri figli.».
Accettai, convinta di incontrare una dea greca. Invece, durante la cena, vidi Venanzio, il figlio di mezzo, timido, che cercava qualcuno con cui costruire un nido simile al loro.
Un sogno, forse. O forse la realtà: Maria, la battagliera, non smise mai di rimettersi in moto. La sua energia era un veloce movimento d’acqua che puliva e svegliava la casa.
Divenni parte di questa famiglia straordinaria. E ogni volta, il ricordo di Elena, con i suoi panettoni e le sue lacrime, tornava a bussare come un’invisibile campanella.
Il Ruscello di Luce
