Il Supremo Pasticcio della Nonna: una storia di Oblio, Amore e Solitudine

L’ultimo pasticcino della nonna Letizia: una storia di oblio, amore e solitudine

Ai margini di un paesino sperduto vicino a Parma, in una casetta modesta, viveva Letizia Rossi — tutti in paese la chiamavano semplicemente “la Nonna Rossi”. Il suo nome ormai si era cancellato dalla memoria dei vicini, ma il rispetto per lei rimaneva vivo in ogni cortile.

A novant’anni suonati, teneva ancora botta: badava alla casa da sola, l’orto era curatissimo e dentro c’era un ordine che sembrava opera non di una nonnina, ma di un esercito di domestiche. Il grembiule bianco, il fazzoletto di tulle immacolato, i davanzali lucidati, le finestre pulite con i vasi di gerani — la Nonna Rossi era una di quelle persone che sanno vivere con grazia e dignità.

Dopo la morte del marito, dieci anni prima, era rimasta sola. I figli — tre: il maschio Marco e le femmine, Pia e Lina — si erano trasferiti in città da tempo, sparpagliati come foglie d’autunno, ognuno per conto suo. I nipoti erano cresciuti, presi dalle loro preoccupazioni, e della nonna di campagna si ricordavano raramente. Solo alle feste, magari con una telefonata.

Ma lei non si offendeva. Capiva: ognuno ha la sua vita. E lei… Lei continuava semplicemente a vivere, a lavorare, ad amare le sue caprette, a fare pasticcini e a credere che tutto avesse un senso.

I regali che tornano indietro
“Buongiorno, Nonna Rossi!” — disse una volta la vicina Rita, entrando con la sua bambina. “Siamo venute per il formaggio! Mia figlia Sofia non ne vuole mangiare altro che il tuo, quello del supermercato lo rifiuta!”

“Ah, tesori miei, che piacere! Eccovi un pasticcino alle amarene — il preferito di Sofia.”

“Grazie, nonna!” — sorrise la bimba.

“Vi vizio, lo so” — rise Letizia. “Ma a chi devo fare i regali, se non ai bambini? I miei non li vogliono neanche, sono tutti presi… L’altro giorno Michele, il vicino, mi ha riportato indietro la marmellata e il formaggio che avevo preparato — dice che non li hanno presi. ‘Non li mangiamo’, mi hanno detto. E io, come una stupida, ero lì a lavorarci su…”

Le vicine si scambiarono uno sguardo di compassione. Lo sapevano tutti: il figlio Marco veniva solo una volta all’anno — e solo per portare il capo a pescare. Il nipote era passato con gli amici per il ponte del Primo Maggio, aveva urlato e bevuto tutta la notte. La mattina dopo, sparito. Le figlie non si facevano vedere da cinque anni. I nipoti, da piccoli, passavano le estati da lei. Ora? Dimenticati, presi tra viaggi e vacanze.

“E le tue caprette come stanno? Non è troppo faticoso occuparsene?” — chiese Rita.

“Ma come potrei farne a meno? Mi tengono in vita. Senza qualcosa da fare, si affonda. Con loro devo alzarmi, dar loro da mangiare, mungere… Il movimento è vita, Rita mia.”

L’orto che non serve più
Quell’estate, la Nonna Rossi lavorava come sempre nell’orto. Tutto era perfetto: pomodori, cavoli, patate, cetrioli… Niente erbacce, tutto al suo posto. Ma i vicini notavano che la vecchietta si fermava più spesso, ansimava.

Una volta cadde — si sentì male. Chiese a Rita: “Chiama i miei figli, digli che la mamma sta male.” Rita chiamò. Ma nessuno arrivò. Né Marco, né Pia, né Lina. Solo silenzio dall’altra parte del telefono.

I vicini si presero cura di lei come poterono. Michele le portò le medicine, Rita mungeva le capre, un’altra vicina le faceva la minestra e i dolci. La nonna si vergognava — non era abituata a pesare su nessuno.

Si indebolì. Molto. Scrisse una lettera:
“Portatemi con voi. Non ce la faccio più da sola…”

Nessuna risposta. Come se avesse parlato al vento.

L’addio
Quell’estate decise: basta. Le capre le diede a Rita. Non piantò nulla nell’orto — per la prima volta in cinquant’anni. Si sedeva alla finestra, guardava la terra incolta, quella che aveva amato e che ora non aveva più la forza per coltivare.

Un giorno trovò in soffitta dei vecchi quaderni di scuola. Strappò un foglio bianco, scrisse a lungo. Ogni lettera era un dolore, ogni parola una lacrima. Poi mise la lettera sul tavolo, accanto a un pacchetto con i suoi soldi.

…Pioveva. Per giorni il camino non fumò. I vicini si preoccuparono.

Entrarono — e la trovarono sdraiata, coperta da una coperta, come se dormisse. Ma non si sarebbe più svegliata.

Chiamarono i figli. Nessuno rispose. Scrissero. Silenzio.

I vicini organizzarono il funerale. Rita, Michele, altri tre. Le donne fecero le torte, gli uomini aiutarono con la bara. Tutto come per famiglia.

I figli arrivarono il giorno dopo, alla sera. Quando tutto era già sistemato. Ricevettero le chiavi dai vicini, entrarono in silenzio in casa.

Sul tavolo rotondo, una tovaglia bianca. Sopra, un pacchetto con i soldi e la lettera.

“Figli miei cari — Marco, Pia e Lina.
Eccovi tutti insieme. Vi prego: non litigate, sostenetevi. Ho dato via tutto. Le icone le portate in chiesa, se non le volete. Il mio cane datelo a Michele, è buono. Vendete la casa, dividetevi i soldi. Perdonate e perdonatemi.
Vostra madre.”

La tomba dimenticata
Chiusero la casa. Inchiodarono porte e finestre. Il cane lo lasciarono semplicemente in cortile.

Se ne andarono. Non tornarono più al paesino.

La casa si riempì di erbacce e ortiche. Nessuno voleva comprare una vecchia casetta in un paese sperduto.

Anche la tomba di Letizia Rossi si coprì di erba e silenzio. Ma Rita, ogni volta che passava dal cimitero, entrava. Puliva, piantava fiori.

“Mi hai fatto tanto bene, cara…” — sussurrava. “Almeno io la tua tomba non la dimenticherò…”

Così se ne vanno quelli che hanno dedicato la vita ai figli. Quelli che amano fino all’ultimo respiro. Ma a volte — nel vuoto.
A volte — senza un “grazie”.
Senza un ultimo “mamma”.
Senza una chiamata.

E la casa resta. Sola. Con le tende bianche e il profumo di marmellata, fissati da qualche parte nel passato.

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