**Diario di un Vecchio e il Suo Fedele Protettore**
Il paesino di Camporosso, avvolto nell’ombra di secolari pini e querce, si spegneva lentamente. Un tempo era vivo e fiorente: case robuste di legno, con tetti scuriti dal tempo, ricordavano i giorni in cui gli artigiani locali erano famosi per i loro finimenti e carri. Ma con l’arrivo delle macchine, i cavalli diventarono inutili, e il paese cominciò a svuotarsi. Dei cento cortili, ne rimasero soltanto venti, abitati da anziani dimenticati dal mondo. I boschi attorno a Camporosso erano ricchi di vita, ma d’inverno diventavano pericolosi — lupi affamati si avvicinavano alle case, costringendo la gente a tenere cani da guardia, il cui abbaiare rompeva il silenzio della notte.
Negli anni Cinquanta, la lavorazione delle pelli, che per secoli aveva sfamato il paese, scomparve. Camporosso diventò una fattoria di un grande consorzio agrario. Gli artigiani si trasformarono in pastori e mungitori. Il vecchio Federico Moretti aveva passato la vita a badare ai maiali. Da bambino si occupava dei porcellini, poi, crescendo, curò il bestiame da allevamento, famoso in tutta la zona. Ma negli anni Novanta, il consorzio fu saccheggiato, gli animali venduti, e Federico, come gli altri anziani, andò in pensione. I giovani se ne andarono in città, e il paese si spopolò. Suo figlio vendette le mucche e partì con la famiglia, lasciando il vecchio e sua moglie malata, Anna, in una grande casa circondata da stalle vuote. La vita si ridusse alla cucina, alla vecchia televisione e a un silenzio infinito.
Ma una primavera, un vecchio amico di Federico, Pietro Santini, tornò a Camporosso con un dono: un batuffolo di pelo rosso. «Per i tuoi settant’anni, Federico! È un cucciolo di pastore maremmano, di razza pura, con un ottimo pedigree. Sarà il tuo fedele amico, pronto a dare la vita per te», disse Pietro, mostrando la foto di un cane enorme, coperto di medaglie. «Allegalo bene, e porterà gloria alla nostra regione nelle mostre canine!» Federico prese il cucciolo, che si accoccolò fiducioso contro il suo petto. Gli preparò una cuccia in una scatola, ma il piccolo piangeva, cercando calore. Anna brontolò: «Hai portato un cane, adesso tocca a te occupartene!» Federico trovò un vecchio biberon, lo riempì di latte e cullò il cucciolo come un bambino. «Gli manca la mamma», borbottò, ignorando le lamentele della moglie.
Il cane crebbe in fretta. Lo chiamarono Leone, per il suo carattere fiero. Riconosceva solo Federico, diffidava degli estranei, e presto diventò un guardiano imponente, capace di capire il padrone a mezza parola. In un anno, quel batuffolo si trasformò in un protettore possente, che teneva lontano galline e oche dal cortile, e di notte si infilava nel letto di Federico, scaldandogli i piedi.
Ma la sventura arrivò a Camporosso. Ai margini del paese, le case abbandonate cominciarono a bruciare. Le vecchie del villaggio si agitarono, pregando Federico e Leone di pattugliare le strade. Così il vecchio diventò la guardia notturna. Insieme al cane, perlustravano i vicoli, e gli incendi cessarono. Presto, però, arrivarono gli stranieri — milanesi che compravano le case vuote e i terreni dove un tempo pascolava il bestiame. Entro l’inverno, sulle vecchie praterie sorsero ville lussuose, circondate da recinti di cemento. I nuovi proprietari assunsero Federico per sorvegliare le loro ricchezze.
«C’è chi scappa dalla campagna alla città, e chi dalla città alla campagna», rifletteva Federico, camminando con Leone tra le ville. «Ma noi vecchi restiamo qui, inutili a tutti.» Il tempo passò, e la salute di Anna peggiorò. I medici le prescrissero una dieta e l’insulina, ma Federico la sorprese a mangiare di nascosto caramelle, come se volesse affrettare la fine. A dicembre morì in silenzio. Al funerale, le anziane si lamentarono che Anna se n’era andata senza estrema unzione — la chiesa di Camporosso era stata demolita nel secolo scorso.
Sulla tomba della moglie, Federico giurò di costruire una cappella. Risparmiò soldi, e dopo sei mesi si recò in un paese vicino, dove c’era un’antica chiesetta di San Rocco. Tornato a casa, scavò le fondamenta e iniziò a costruire. In autunno, una croce svettava sulla piccola cappella di legno. Le vecchie portarono icone, tra cui un’antica immagine di San Nicola, sopravvissuta ai tempi bui. La cappella fu benedetta in suo nome, e diventò un luogo di preghiera per i paesani e i villeggianti.
Quell’inverno, prima dell’Epifania, Federico si sentì inquieto. Controllava spesso la cappella. La vigilia, mentre sonnecchiava, fu svegliato da un presentimento. Afferrò il fucile e corse con Leone verso la chiesetta. Il cane gli si lanciò davanti, e un minuto dopo, la notte fu squarciata da spari. Federico, inciampando nella neve, arrivò sul posto. Leone giaceva a terra, il sangue che gli usciva dal petto macchiava la neve. Il vecchio cadde in ginocchio, stringendo la testa del cane, e pianse come un bambino. «Leone, mio fedele… Perché?» gemette, maledicendo il destino.
Accorsero le vecchie e i villeggianti. «Piange il cane, ma per Anna non ha versato una lacrima», bisbigliava qualcuno. Poi una voce gridò: «Hanno rubato l’icona! San Nicola è sparito!» Tutti corsero alla cappella, ma Federico non si mosse. Accarezzava Leone, sussurrando: «Abbiamo passato tanto insieme… Ti ricordi quando hai salvato quel bambino dal fiume? E quando mi hai tirato su mentre ero malato?» Il cane gli leccò debolmente la mano, e Federico, vedendo che era vivo, strappò la camicia per fasciargli la ferita e urlò: «Portate una slitta!»
A casa gli iniettò penicillina, gli mise del succo di piantaggine sulla ferita e si sedette accanto a lui. «Dormi, Leone, correremo ancora», sussurrava, carezzandolo. Ricordò quanto il cane capisse le sue parole, e sorrise. Una volta, mentre sorvegliava una villa, aveva scommesso con dei ragazzi che Leone capiva tutto. Uno di loro, ridendo, aveva detto: «Ora prendo un coltello e ammazzo il vecchio». Leone lo atterrò all’istante, tenendolo fermo a terra. «Ecco la vostra risposta», aveva riso Federico.
Un anno dopo, durante le feste, Leone salvò di nuovo il padrone. Davanti alla villa di un milanese, il cane fiutò il pericolo, saltò il recinto e bloccò un ragazzo. Federico lo riconobbe — era quello che aveva sparato a Leone e rubato l’icona. «Maledetto», sibilò il vecchio. «Credi di poter uccidere e rubare?» Il cane aspettava l’ordine, ma Federico sussurrò: «Restituirà l’icona. Lascialo andare.» Leone obbedì, riluttante. Poco dopo, San Nicola tornò nella cappella, e Federico e Leone continuarono a proteggere Camporosso, sapendo che la loro amicizia era più forte di ogni sventura.