Il Volto della Gentilezza: La Verità sulla Suocera

La maschera della dolcezza: la verità sulla suocera

Ho sempre creduto che mia suocera, Adriana Romano, mi trattasse con affetto e premura. Sembrava l’incarnazione della bontà — sorrideva, mi abbracciava quando ci vedevamo, mi chiamava “figlia”. Ma un incidente le strappò la maschera, e vidi il suo vero volto — freddo, pieno di disprezzo.

Mio marito, Luca, era un militare, e la nostra vita assomigliava a un continuo girovagare. Ci trasferivamo da una caserma all’altra, dalle pianure del Sud ai boschi del Nord. La famiglia di Luca viveva nella lontana Verona, e i nostri incontri erano rari ma calorosi. Andavamo da loro, e lei veniva da noi. Ogni volta, gioivo delle sue visite, convinta che tra noi regnasse un’intesa perfetta.

Quando Adriana arrivava, prendeva in mano tutta la casa. Preparava minestroni profumati, lucidava i pavimenti fino a farli brillare, sistemava le stoviglie come preferiva. Questo mi stupiva un po’, ma lo attribuivo al suo desiderio di aiutare. Una volta, lavai i piatti dopo cena, e un’ora dopo la sorpresi a rilavarli. Le chiesi il motivo, cercando di nascondere il dispiacere. “Ho aperto la finestra, è entrata la polvere”, rispose con un sorriso leggero. Annuii, ma in cuor mio nacque un dubbio. Da allora, rilavava sempre i piatti dopo di me, come se le mie mani avessero lasciato chissà quale macchia indelebile.

Quando nacque nostra figlia, Sofia, fui travolta dalle sue cure. Nei primi mesi, la lavavo in una piccola vaschetta, ma quando crebbe, la mettemmo in soffitta, nella nostra casa in affitto a Bologna. La coprii con vecchie cose — scatole di vestiti, giocattoli dimenticati — e me la dimenticai completamente.

Passò un anno. Arrivò l’autunno umido dell’Emilia, e toccò tirar fuori le scarpe pesanti. Salii in soffitta, spostando i mucchi di roba, e mi imbattei in un vecchio sacchetto di plastica infilato in un angolo. Dentro c’era un mazzo di lettere. La curiosità ebbe il sopravvento: ne presi una, poi un’altra. Erano indirizzate all’ufficio di Luca. Le aveva scritte sua madre. Aprii un foglio, e il sangue mi gelò nelle vene.

Adriana sfogava veleno in quelle lettere. Mi chiamava una massaia inutile, scriveva che le faceva schifo condividere la cucina con me, che era costretta a rifare tutto quello che facevo io — dalle pulizie al bucato. “Sciocca, ragazza senza cultura”, così mi descriveva, ricordando che avevo lasciato l’università al terzo anno. La cosa peggiore fu leggere che, secondo lei, mi ero “attaccata a suo figlio come una zecca”, e che Sofia non era sua figlia, ma una “bastardella”. Ogni parola mi colpiva come una frustata. Rimasi in piedi, tremante, incapace di crederci. Come poteva? Sorridermi in faccia, abbracciarmi, bere il caffè insieme — e scrivere quelle cose alle mie spalle? E Luca… Le aveva lette. E le aveva conservate. Perché?

Il mondo mi sembrò vacillare. Non sapevo cosa fare. Volevo precipitarmi da mio marito, gridare, gettargli quelle lettere in faccia, chiedere spiegazioni. Ma qualcosa dentro mi fermò. Una lite avrebbe potuto distruggere tutto — la nostra famiglia, la nostra fragile vita. Respirai a fondo, rimisi le lettere nel sacchetto e lo riposi al suo posto. La sera, con voce il più calma possibile, chiesi a Luca di prendere le scarpe dalla soffitta. Lui annuì, senza sospettare nulla. Lo osservai con la coda dell’occhio, il cuore in gola. Tirò giù le scatole, e poi sentii il fruscio del sacchetto. Luca si bloccò un attimo, poi lo infilò in fretta sotto la giacca e se ne andò. Dove l’avrà messo? Nascosto? Bruciato? Non lo seppi mai.

Da quel giorno, guardai mia suocera con occhi diversi. I suoi sorrisi mi sembravano avvelenati, le sue parole false. Ma tacqui. Per Sofia, per la nostra famiglia, continuai a recitare la parte della nuora affettuosa, anche se dentro urlavo per il dolore e il tradimento.

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