Felicità inaspettata: un dramma di famiglia ritrovata
Nella graziosa cittadina di Positano, dove la brezza marina si mescola al profumo dei fiori di limone e le stradine sono immerse nel verde, Massimo si recò per la prima volta con i suoi nuovi genitori in campagna dalla nonna e dal nonno. Con loro c’era anche zia Laura, sorella del padre, con i suoi due figli. Tutti chiacchieravano allegramente, senza assillare Massimo con domande, e lui si sentiva stranamente a suo agio. Il ragazzino trovò subito un’intesa con i cugini. La nonna offriva a tutti frittelle con panna fresca o miele a scelta – il nonno aveva un suo apiario, e il profumo del miele era così intenso da far girare la testa. A Massimo quel posto sembrava una favola, e mentre tornavano a casa, non smetteva di pensare: “Magari potessi restare qui per sempre…” Ma nel cuore si annidava la paura: e se lo avessero rimandato nell’orfanotrofio? Quella sera accadde qualcosa che gli cambiò la vita.
Per le nozze d’oro dei genitori di Massimo, Vittorio e Elena, si radunò quasi tutta la famiglia. Massimo arrivò da lontano con la moglie e la figlia. Lui prestava servizio in un’altra città, e la sua famiglia viveva con lui. Gli ospiti conoscevano la sua storia insolita – dura, ma con un lieto fine. Massimo si alzò, tenendo il bicchiere, e si rivolse ai genitori:
“Cari mamma e papà, vi auguro salute e tanti anni ancora! Grazie per tutto quello che avete fatto per me! Nella mia vita ho avuto tanti genitori: prima quelli che mi hanno dato la vita, poi quelli che cercavano di riempire un vuoto. Ma voi… voi mi avete regalato un’infanzia vera, mi avete fatto diventare un uomo. Vi devo tutto! Vivete a lungo, per voi farei qualsiasi cosa!”
Elena e Vittorio lo guardarono con occhi pieni di lacrime, traboccanti d’amore e orgoglio.
Massimo non credeva più che un’altra famiglia adottiva potesse essere definitiva. Undici anni, ed era ancora nell’orfanotrofio. Non aveva più nemmeno voglia di lasciare quelle mura familiari, ma la sua anziana educatrice, zia Nina, gli accarezzò la testa e disse dolcemente:
“Non preoccuparti, Massimino, forse stavolta andrà bene. E in caso contrario, noi siamo sempre qui, ti aspettiamo.”
“Sì, certo, mi aspettate,” borbottò lui. “La signora Silvana, l’educatrice, ha detto che farà un segno della croce se qualcuno mi porterà via per sempre.”
“Non darle retta,” lo interruppe zia Nina. “È giovane, non sa ancora come trattare con i bambini.”
Zia Nina amava Massimo, lo capiva, e lui ricambiava con affetto e rispetto. Lo rassicurò che, anche se non si fosse trovato bene con i nuovi genitori, non avrebbe dovuto preoccuparsi.
“Ti aspettiamo, certo che ti aspettiamo,” aggiunse. “Anche la direttrice ha detto che il tuo letto non verrà occupato, sistemeremo i nuovi arrivati in altre stanze.”
Massimo annuì, lanciando un’occhiata al dormitorio, pensando che probabilmente sarebbe tornato lì presto. Non aveva voglia di partire.
“E perché ho accettato?” si chiese. “Volevo dire di no, ma quei due mi guardavano con quella speranza negli occhi… Mi hanno fatto pena. Pazienza, non è la prima volta. Da piccolo piangevo quando mi rimandavano indietro, ma ora non importa più. A volte i genitori adottivi scoprono di aspettare un figlio loro e io non servo più. Perché allora mi hanno preso?”
Ricordava quando aveva rotto per sbaglio un telefono in una delle famiglie adottive. Lo avevano sgridato, chiamandolo ingrato, e poi l’avevano riportato all’orfanotrofio – “Non era adatto”. Aveva conosciuto tanti tutori, ma Massimo era cresciuto e diventato più furbo. Se una famiglia non gli piaceva, combinava qualcosa di apposta per essere rimandato indietro. Aveva imparato a capire quando c’era vero affetto e quando era solo vuoto.
Una volta fu preso da una coppia in cui la madre adottiva, Olga Maria, lo chiamava “Massimino”. Massimino? Lui era Massimo, ormai quasi grande, e lei lo trattava come un bambino. Vivevano in una casa grande, ma non avevano figli propri. Olga gli aveva preparato una camera tutta azzurra – tende, copriletto, persino le pareti. “Volevano una bambina,” pensò Massimo. In un angolo c’erano macchinine e un pallone da calcio, ma tutto troppo infantile per lui. Il padre adottivo quasi lo ignorava, immerso nel lavoro, come se avesse comprato un giocattolo per la moglie. Olga lo trattava come una bambola: lo vestiva, lo fotografava, si vantava con le amiche del suo “Massimino così bello”. A volte lo portava al parco, ma solo sulle giostrine per piccoli – Massimo si vergognava vicino a quei bambini.
A volte le aveva fatto pena. Olga piangeva, lamentandosi al telefono con le amiche che il marito non la amava e che non poteva avere figli. Massimo la guardava con occhi adulti e pensava: “Peccato, ma nell’orfanotrofio sto meglio che con lei.” Della madre naturale ricordava poco, ma sapeva che l’avevano portato via in tempo – i vicini avevano chiamato i servizi sociali. A cinque anni, nell’orfanotrofio, aveva respirato di sollievo: un letto pulito, amici, la dolce zia Nina.
A casa di Olga si era stancato di tutta quell’attenzione. Si sentiva trattato come un bambino. In un momento di rabbia distrusse la camera azzurra, quasi graffiò la macchina del padre adottivo, ma poi si fermPoi, con un respiro profondo, Massimo capì finalmente di aver trovato la famiglia che lo avrebbe amato per sempre.