Inatteso soggiorno con il nipote: da una visita di una settimana a mesi di faccende domestiche

Quando mia figlia mi ha chiamato chiedendomi di andare da lei per una settimana, non ho esitato neanche un momento. Era impegnata a preparare esami importanti e aveva bisogno di aiuto con il suo bambino di due anni. Le mie amiche scuotevano la testa: “Valeria, ma davvero vuoi farti carico di tutto? Se dici di sì una volta, poi non riesci a liberartene.” Ma come potevo rifiutare? È mia figlia. È mio nipote.

Sono arrivata nel loro bilocale in periferia di Milano con una valigia e tanta voglia di aiutare. Ma ho capito subito che mi volevano non solo come nonna, ma anche come domestica, cuoca, lavandaia e, ciliegina sulla torta, badante a tempo pieno senza paga.

Mio genero lavorava tutto il giorno, mia figlia passava le ore al computer a studiare. E tutto il peso della casa ricadeva su di me: cucinare, pulire, la lavatrice che non si fermava mai, e la lavastoviglie… che tra l’altro era rotta, così i piatti dovevo lavarli a mano.

Va bene, mi dicevo. Resisterò. È solo una settimana. Una. Sola. Settimana.

Ma quella settimana è diventata due, poi tre. E senza accorgermene, è passato un mese intero. Mia figlia ha finito gli esami, ma subito ha iniziato a cercare lavoro, inviando curriculum. Io non sono tornata a casa mia… e come avrei potuto? Il bambino era piccolo, senza di me non ce l’avrebbero fatta.

Non mi hanno chiesto di restare. Ma non mi hanno nemmeno detto di andarmene. È stato tutto implicito: vedevo che avevano bisogno, e rimanevo. Solo che, giorno dopo giorno, sentivo sempre più i loro sguardi di disapprovazione. Prima perché la minestra non era di loro gusto. Poi perché avevo messo le camicie di mio genero nel casseto sbagliato. E infine, ho cominciato a sentirmi di troppo.

Nella loro casa, ero diventata come un’ombra. Facevo tutto, aiutavo, ma mi sentivo un’estranea. E nessuno ha mai detto: “Grazie, mamma.” Nessuno ha avuto il coraggio di dirmi chiaramente: “Mamma, forse è ora che torni a casa tua.” No. Solo sorrisetti tirati e sospiri. E io che speravo, chissà, che vedendo tutto quello che facevo per loro, mi avrebbero ringraziata. O almeno abbracciata. O forse offerto un caffè decente, invece di quello istantaneo.

Non avrei mai immaginato che il mio amore e il mio aiuto si sarebbero trasformati in una prigione invisibile.

A casa mia, a Sesto San Giovanni, ho un monolocale pulito, accogliente e silenzioso. Lì ci sono le mie cose. Il mio lavoro a maglia, i vecchi libri, i vasi di gerani sul davanzale. Ma io sono qui. Ogni giorno mi sveglio alle sei per preparare la colazione, poi vesto, do da mangiare al bambino e lo porto a passeggio. A pranzo cucino, faccio il bucato, lavo i pavimenti. La sera, cena. E la notte, sdraiata sul divano nella cameretta, penso: “Dovrà andare sempre così?”

Ma io sono una madre. Sono una nonna. E non mollo. Aspetto. Aspetto che un giorno mia figlia mi dica: “Mamma, ti siamo così grati per tutto.” O almeno: “Mamma, riposati, sei stanca.” Forse mio genero potrebbe sorridere e dire: “Senza di te non ce l’avremmo fatta.”

Per ora, solo silenzio.

Forse non se ne sono ancora resi conto. Forse i giovani hanno bisogno di più tempo per capire quanto vale il sacrificio di una madre. E sì, a volte mi sembra di essere solo una risorsa, non una persona.

Ma continuo a sperare. Continua a credere che il mio amore, la mia pazienza e le mie cure abbiano un senso. Che non saranno dimenticate. Non voglio che la mia bontà diventi un peso che dovranno trascinarsi dietro con sensi di colpa. Voglio che sia un sostegno, un esempio. Perché quando mia figlia invecchierà, capisca quanto è importante non solo prendere, ma anche saper apprezzare.

Se non sono pronti ora, aspetterò. Sono una madre. E come tutte le madri, ho nel cuore una riserva infinita di fede… anche quando fa male.

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