**Incontro con il Destino**
Il paesino di Boscofreddo, nascosto all’ombra di pini secolari nei pressi di Verona, ci accolse con una fredda mattinata. Il giorno dopo avrei incontrato la mia futura suocera, e io, Beatrice, ero un groviglio di nervi. Le amiche sposate, nel tentativo di incoraggiarmi, non fecero che aumentare la paura:
— Tieni la testa alta, non vieni da una strada qualsiasi!
— Non lasciare che la suocera comandi, fatti valere subito!
— Le buone suocere non esistono, ricordatelo!
— Sei tu che li rendi felici, non il contrario!
La notte passò senza sonno, e all’alba sembravo già morta e sepolta. Io e il mio fidanzato, Matteo, ci incontrammo alla stazione. Le due ore di regionale sembrarono un’eternità. Scesi dal treno, attraversammo un piccolo borgo e poi un bosco innevato. L’aria gelida profumava di resina e Natale, la neve scricchiolava sotto i piedi, e i pini sussurravano sopra di noi. Stavo per congelare, quando finalmente apparvero i tetti di Boscofreddo.
Alla porta ci attendeva una vecchietta in un giubbotto rattoppato e un foulare sbiadito. Se non mi avesse chiamato, l’avrei oltrepassata senza vederla.
— Beatrice, piccola mia, sono Caterina, la madre di Matteo. Piacere! — Togliendosi un guanto logoro, mi strinse la mano con forza. Il suo sguardo, acuto e penetrante, sembrava trapassarmi. Tra cumuli di neve, ci incamminammo verso una vecchia baita di legno scuro. Dentro, era caldo, la stufa ardeva rossa.
Era come tornare indietro nel tempo. A ottanta chilometri da Verona, né acqua corrente né un bagno decente, solo un buco fuori. Radio? Non in tutte le case. L’unica luce era una lampadina fioca.
— Mamma, accendiamo la luce — propose Matteo.
Caterina aggrottò le sopracciglia:
— Non siamo signori, a vivere nella luce. Hai paura di far cadere la minestra? — Ma poi, guardandomi, si addolcì. — Va bene, figliolo, ora accendo, mi ero dimenticata.
Girò la lampadina sopra il tavolo, e una luce giallognola illuminò la cucina.
— Avrete fame, vero? Ho fatto la pasta e fagioli, accomodatevi! — Si affaccendò a versarci il piatto fumante.
Mangiavamo scambiandoci occhiate, mentre lei diceva parole dolci, ma il suo sguardo sembrava un bisturi che sezionava la mia anima. Mi sentivo osservata. Quando i nostri occhi si incontravano, lei si affrettava a fare qualcosa: tagliare il pane, aggiungere legna alla stufa.
— Vi faccio un caffè — cinguettò. — Non è un caffè qualunque, è con un goccio di grappa. E poi la marmellata di fragoline di bosco, scaccia il freddo e riscalda il cuore. Servitevi, cari ospiti!
Mi sembrava di vivere in una favola antica. Da un momento all’altro sarebbe entrato il regista gridando: “Stop, ciak!” Il calore, il cibo e il dolce sapore del caffè mi avevano stordito. Avrei voluto crollare su un cuscino, ma Caterina aveva altri piani.
— Ragazzi, andate al negozio, comprate due chili di farina. Prepariamo le sfoglie, stasera arrivano i parenti: le sorelle di Matteo, Lucia e Sofia, e poi Elisabetta da Verona col suo ragazzo. Io intanto farò le verdure e il purè.
Mentre ci vestivamo, tirò fuori da sotto il letto un enorme cavolo e, affettandolo, borbottava:
— Cavolo mio, ti faccio a striscioline, pure la radice è buona!
Per il villaggio, tutti salutavano Matteo, gli uomini si toglievano il cappello, ci seguivano con gli occhi. Il negozio era nel paese vicino, attraverso il bosco. La neve luccicava al sole, ma con il tramonto la luce svanì, le giornate invernali sono corte. Tornati, Caterina annunciò:
— Beatrice, prepara la pasta. Io vado nell’orto a calpestare la neve, così i topi non rosicchiano la corteccia. Matteo venga con me, che lavori un po’ con la vanga.
Rimasi sola con una montagna di impasto. Se avessi saputo che toccava a me preparare tutto, non ne avrei presa così tanta! “Incomincia, e poi vedrai — mi incitava la suocera. — L’inizio è faticoso, la fine è dolce.” I ravioli vennero storti: uno tondo, uno lungo, uno pieno, uno vuoto. Mi arrovellai finché non li ebbi chiusi tutti. Più tardi, Matteo mi confessò che sua madre stava solo verificando se ero adatta a essere sua moglie.
La casa si riempì di parenti, non c’era spazio per respirare. Tutti biondi con occhi azzurri, sorridenti, mentre io mi nascondevo dietro Matteo, imbarazzata. Tirarono il tavolo al centro, e mi fecero sedere sul letto con i bambini. Il letto cigolava, le ginocchia quasi toccavano il soffitto, i bambini saltellavano — mi girava la testa. Matteo portò una cassetta, la coprì con una coperta, e io mi sentii come una regina in mostra. Non mangio cavoli e cipolle, ma quella sera divorai come se non ci fosse un domani!
Si fece buio. Caterina aveva un letto stretto vicino alla stufa, gli altri dormivano in sala. “Stretti, ma allegri”, borbottava. A me, come ospite, toccò il letto migliore. Da un armadio intagliato, fatto dal defunto padre di Matteo, tirarono fuori lenzuola inamidate. Mi sembrava di coricarmi in un museo. La suocera stendeva le coperte e brontolava:
— Cammina, casa, cammina, stufa, mentre la padrona non trova un posto per dormire!
I parenti si sdraiarono a terra su un mucchio di vecchie coperte prese dalla soffitta. Improvvisamente mi venne voglia di andare in bagno. Uscii dal letto, tastando il pavimento per non pestare qualcuno. Nel corridoio era buio pesto. Qualcosa di peloso mi sfiorò il piede. Strillai, pensando fosse un topo. Tutti saltarono su, ridendo: era un gattino vagabondo tornato a casa.
Andai in bagno con Matteo. Nessuna porta, solo una tenda. Lui stava di spalle, tenendo un fiammifero acceso perché non cadessi nel buco. Tornai, crollai sul letto e mi addormentai di colpo. Aria fresca, silenzio… la campagna.