Incontro con il destino

Il sogno di Pellegrina

Nella piccola frazione di Boschetto, nascosta tra le ombre dei secolari pini nell’entroterra toscano, l’alba gelida accoglieva con un respiro bianco. Domani avrei conosciuto la mia futura suocera, e io, Pellegrina, ero un groviglio di nervi. Le amiche sposate, nel tentativo di confortarmi, non fecero che alimentare le mie paure:

“Tieni la testa alta, non sei una che viene dalla strada!”
“Non lasciare che la suocera ti comandi, fatti valere subito!”
“Le buone suocere non esistono, ricordalo!”
“Sei tu che li rendi felici, non loro te!”

La notte trascorse senza sonno, e al mattino sembravo già un fantasma. Con il mio fidanzato, Riccardo, ci incontrammo alla stazione. Le due ore di regionale sembrarono un’eternità. Scesi dal treno, attraversammo il paesino e poi un bosco innevato. L’aria pungente sapeva di resina e di Natale, la neve scricchiolava sotto i piedi, e i pini sussurravano segreti sopra di noi. Cominciavo a gelare, ma presto apparvero i tetti di Boschetto.

Alla cancellina ci accolse una minuscola vecchietta in un giubbotto logoro e uno scialle sbiadito. Se non mi avesse chiamata, sarei passata oltre senza vederla.

“Pellegrina, tesoro, io sono Serafina, la madre di Riccardo. Piacere!” Toglie un guanto consumato e stringe la mia mano con forza. Il suo sguardo, acuto e penetrante, sembrava trapassarmi l’anima. Attraversammo un sentiero fra i cumuli di neve ed entrammo in una vecchia casa di legno annerito dal tempo. Dentro, era caldo, la stoviglia ardeva di un rosso vivo.

Mi sembrò di tornare indietro nel tempo. A ottanta chilometri da Firenze, e niente acqua corrente, niente bagno decente, solo un buco nel cortile. La radio? Non in ogni casa. La penombra era squarciata da una flebile lampadina.

“Mamma, accendiamo la luce,” propose Riccardo.

Serafina aggrottò le sopracciglia:

“Non siamo signori, per stare alla luce. Hai paura di perdere il brodo dalla bocca?” Ma poi, guardandomi, si addolcì. “Va bene, figliolo, accendo subito, mi ero distratta.”

Girò la lampadina sopra il tavolo, e una luce giallognola illuminò la cucina.

“Avete fame, eh? Ho fatto la minestra, accomodatevi!” Si mise a trafficare, versando la pasta bollente nei piatti.

Mangiavamo in silenzio, scambiandoci occhiate, mentre lei canticchiava parole dolci, ma il suo sguardo, affilato come un bisturi, mi sezionava l’anima. Mi sentivo sotto esame. Quando i nostri occhi si incrociavano, si metteva a fare qualcosa: tagliava il pane, aggiungeva legna al fuoco.

“Faccio il tè,” cinguettò. “Non è tè normale, è al mirtillo. Con la marmellata di fragoline di bosco, scaccia i malanni e scalda il cuore. Servitevi, cari ospiti!”

Mi sembrava di essere in una fiaba d’altri tempi. Da un momento all’altro, sarebbe entrato un regista gridando: “Stop, ciak!” Il calore, il cibo fumante e il tè dolce mi avevano intontita. Avrei voluto crollare su un cuscino e dormire, ma Serafina aveva altri piani.

“Ragazzi, andate alla bottega, comprate due chili di impasto. Faremo i tortelli, stasera vengono i parenti: le sorelle di Riccardo, Silvia e Lucia, e poi Elisabetta da Firenze col suo fidanzato. Io intanto il”Mentre ci vestivamo, lei tirò fuori da sotto il letto un enorme cavolo e, tagliuzzandolo, borbottò: ‘Il cavolo va alla tosatura, e torna a casa pelato’.”

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