Mi sono ritrovata prigioniera di un matrimonio che non è il mio: i miei genitori pretendono il mio aiuto, mentre la mia famiglia cade a pezzi davanti ai miei occhi.
A volte è meglio separarsi in tempo piuttosto che torturarsi per anni e rovinare la vita di chi ci sta intorno. Ma i miei genitori hanno scelto un’altra strada: restare insieme per “decenza” e per i “figli”, anche se quei figli hanno quasi trent’anni. E il risultato? Non solo si trascinano a vicenda verso il fondo, ma hanno trascinato anche me, la loro figlia adulta, in questo inferno familiare senza fine.
Fin da bambina ho assistito ai loro litigi. Prima erano piccole cose—un piatto sporco, la televisione accesa troppo alta, la carne poco cotta. Poi è diventato tutto urla, accuse, porte sbattute. Si riconciliavano come se niente fosse, ma il rancore rimaneva. E così via, in un ciclo infinito, come in una commedia drammatica in cui io, pur non essendo la protagonista, ero comunque sempre in scena.
Crescendo, hanno iniziato a usarmi come mediatrice. “Dì a tuo padre di smetterla con il vino”, “Digli a tua madre di non urlare”. Ero il loro cuscinetto, lo scudo, la spalla su cui piangere. Ognuno riversava su di me i propri dolori, e io mi sentivo svuotata. Era come se fossi l’unica responsabile di tenere in piedi il loro matrimonio, anche solo per un altro giorno.
Sognavo di scappare. E l’ho fatto—sono andata all’università in un’altra città. Non per l’istruzione, ma per la quiete, la libertà, un posto senza quei rimproveri continui. Tornare a casa non mi piaceva, perché non era più casa, solo un palcoscenico di recriminazioni. Mia madre diceva che ero debole come mio padre, mio padre che ero isterica come lei. Io, invece, volevo solo vivere.
Col tempo, ho creato la mia famiglia. Mi sono sposata, ho avuto un figlio. Sembrava una nuova vita. Ma i miei genitori restavano bloccati nel loro rapporto tossico. Invece di chiudere, si aggrappavano all’abitudine. E io continuavo a stare nel mezzo, solo che ora avevo un passeggino in una mano e il telefono con le lacrime di mia madre nell’altra.
“Vieni! Tua madre ha ricominciato!” – urlava mio padre.
“Tuo padre è di nuovo ubriaco, non si alza dal divano, fai qualcosa!” – sussurrava mia madre.
Se non accorrevo, erano offese e rimproveri: “Ti sei dimenticata di noi! Sei nostra figlia! Come puoi?”
E intanto, a casa mia, mio marito mi guardava stanco. Si chiudeva sempre più in sé. Diceva di sentirsi un estraneo nella sua stessa famiglia. Che io ero sempre altrove, mai davvero con lui. Che non poteva essere felice così. E io capivo che lo stavo perdendo. Perdevo tutto ciò che avevo faticato a costruire. Perché le mie continue partenze e le telefonate notturne non erano normali. Erano la fine.
Ho provato a parlarci:
“Separatevi! Non state vivendo, vi state torturando! Questa non è una famiglia!”
Ma in risposta solo paure e scuse:
“Dividere la casa? Ma sei pazza? A questa età?”
“Cosa diranno i vicini? Separarsi ora sarebbe una vergogna!”
Eppure, riversare su di me tutta la loro infelicità non era vergognoso. Usarmi come terapia gratuita non li faceva arrossire. Mia madre pretendeva il mio sostegno, mio padre la mia comprensione. E io non avevo più un posto dove scappare.
Sono stanca di essere il ponte che calpestano per non affondare. Ho 32 anni. Sono una donna adulta, con un marito, un figlio e il diritto alla mia felicità. Ma non mi lasciano vivere. I miei genitori mi usano come scusa per continuare il loro finto matrimonio.
Non so cosa fare. Se mi allontano, sarò la figlia crudele. Se resto, perderò mio marito. E la cosa più terribile è che rischiamo di diventare come mia madre: infelice, risentita, aggrappata a un matrimonio vuoto per paura di restare sola.
Forse qualcuno sa come uscirne senza distruggere tutto? Ho davvero bisogno di un consiglio. Prima che sia troppo tardi…
**La vita ci insegna che, a volte, dire “no” non è egoismo, ma l’unico modo per salvare noi stessi e chi ci ama davvero.**