Inutile. Racconto.
Vittoria scoprì che suo padre era ancora vivo proprio quando si ammalò. Da tempo non si sentiva bene, era persino andata dallinfermiera della scuola, la signora Lucia, che le aveva prescritto una visita dal neurologo. Vittoria chiese a sua madre, Maria, di prenotare lappuntamento; la madre lo dimenticò e poi si rimproverò a lungo, immaginando come sarebbero andate le cose se avessero saputo della malattia prima.
È vivo? ribadì Vittoria.
Maria fissava le sue calze; sul grosso alluce brillava una macchia luminosa.
Vivo, ripeté Maria. Scusa.
Vittoria non fece più domande sul padre biologico. Non lo ricordava, pur sapendo che era lì. Dalletà di due anni era stata cresciuta dal patrigno, Gianni, che chiamava papà e laveva anche adottata. Quando ne aveva tredici, il rapporto con Gianni si incrinò: le sembrava chiedere troppo, rimproverarla incessantemente, non darle spazio. Allora decise di cercare il vero padre. Per tre mesi strizzò il collo di Maria, esigendo nome, indirizzo, numeroqualsiasi traccia. Maria rimaneva muta, come una statua di marmo, senza parlare. Vittoria scorgeva i sussurri tra madre e patrigno, come se stessero decidendo se rivelarle la verità. Per quanto litigasse con Gianni, Vittoria era convinta che fosse stato lui a spingere Maria a confessare.
È morto, disse Maria. Si è schiantato sulle Alpi.
Stranamente, Vittoria gli credette. Non chiese prove, né cercò parenti; nulla trovò.
Lho chiamato. Ha accettato di fare gli esami. Se il trapianto di midollo andrà bene, tutto si sistemerà. disse la voce delloperatore al telefono.
In quel momento Vittoria capì che il bene non sarebbe più tornato. Mai più. Sua madre laveva ingannata, il padre laveva abbandonata, Gianni si era ritirato, dichiarando che non si può amare con la forza. A chi le serviva adesso? Per questo si ammalò, come se la natura volesse sbarazzarsi di qualcosa di superfluo.
Non lo voglio! urlò. Niente operazioni, vi odio, non voglio vivere!
Maria cercò di abbracciarla, ma Vittoria sfuggì e si chiuse nella sua stanza.
Il cielo si confondeva con una nebbia sospesa, così da non distinguere lorizzonte. A Vittoria piaceva che le finestre affacciassero su un deserto di pietra, mentre Maria sospirava per il trasloco a Bologna, dove le altre finestre guardavano sul cortile, considerandolo noioso. Così poteva vedere il tramonto, ma nel cortile cerano solo bimbi e anziane. Quella sera il tramonto non comparve; il mondo affogò in una foschia grigia, senza mai dissolversi nemmeno nei brevi istanti tra giorno e notte. Il mondo si scuriva e si confondeva, come la vita di Vittoria.
Quando sentì dei passi pensò fosse sua madre venuta a chiedere perdono. Era invece Gianni, apparso sulla soglia come se temesse che Vittoria lo allontanasse.
Non essere arrabbiata con tua madre. Voleva solo il meglio. disse.
Il meglio, certo! Ti piacerebbe se ti seppellissero così? ribatté.
Lei gli scriveva, diceva che volevi incontrarlo. Lui non rispondeva. Maria pensò fosse meglio così, replicò Gianni.
Vittoria si morse il labbro. Lui non rispondeva. Ora, al sapere della sua morte, risponde.
Gianni balzò nella porta, poi, senza attendere una risposta, scomparve verso la cucina.
A Maria si avvicinò solo dopo unora. In realtà aveva già deciso, ma volle dare a tutti il tempo di calmarsi.
Nella stanza di Maria aleggiava il profumo di vaniglia del suo profumo, che sovrastava ogni altro odore, ma Vittoria percepiva ancora: la polvere fine che la madre usava per truccarsi, la crema per le mani al lampone, il sentore di libri antichi della biblioteca. Maria amava prendere in prestito libri, credendolo un vero lusso. La lampada era spenta, la sua figura si fondeva con la poltrona, il lungo camice copriva i suoi piedi bianchi. Maria detestava labbronzatura artificiale e trascorreva linverno attendendo il sole destate.
Va bene, disse Vittoria. Che faccia gli esami.
Scoprì in ospedale che il padre stava per arrivare. Si fece più male, nonostante il medico avesse promesso ancora tempo. Il tempo non cera più. Come lei, quasi cessò di esistere.
Vittoria giaceva, voltata verso il muro, scheggiando con lunghia un pezzo di vernice scrostata. Guardava le crepe e si sentiva irreale. Tutto ciò che le accadeva sembrava unillusione. Spinse un frammento di vernice sotto lunghia, facendo fuoriuscire sangue, come se quel gesto potesse farla sentire viva. Il reticolo del letto, le voci delle infermiere nei corridoi, lodore ospedalierotutto pareva un sogno prolungato.
Prima di aprire gli occhi, avvertì un odore familiare e capì di conoscerlo. Inspirò laria intrisa di tabacco e olio di motore, respirò a fondo, espirò in preda al panico e aprì gli occhi.
Un uomo avvolto in un camice bianco stava accanto al letto. Aveva il viso abbronzato, solcato da rughe, sopracciglia folte, occhi marroni spalancati.
Ciao, figlia mia.
La voce era bassa, anche lei le era familiare.
Ciao, gracchiò Vittoria, tossì e ripeté. Ciao.
Il padre non era affatto come lo immaginava. Aveva una moglie e tre figli. Lavorava come meccanico di filobus, una professione che a Vittoria era sconosciuta. Raccontò di volersi dedicare ai cani; la madre era contraria, così avrebbe studiato veterinaria, ma alla fine avrebbe seguito il sogno di addestratore di cani.
I cani sono migliori degli uomini, disse lui.
Lintervento finì con successo. Vittoria attese che il padre venisse a trovarla o, almeno, la chiamasse, ma non arrivò. Invece, madre e patrigno si susseguirono, uno ogni due giorni: Maria lasciava dietro di sé il profumo di vaniglia e nuovi libri, senza accorgersi che quelli vecchi rimanevano chiusi. Gianni si sedeva accanto a lei e raccontava sciocchezze, anche quando Vittoria era girata verso il muro.
Il giorno della dimissione Vittoria aspettava ancora il padre. Credeva che sarebbe venuto. In attesa del medico, si alzò, guardò la finestra socchiusa, con le impronte sfocate di manine infantili, fece un passo verso lesterno, inspirò laria fresca e umida; il pavimento sembrava oscillare sotto i piedi, come fosse su una barca in un fiume impetuoso. Nella stanza non cera più nessuno; Vittoria spalancò la finestra. Il vento le colpì il volto, portando odori di reni gonfi, terra umida, asfalto polveroso. Le auto sfrecciavano, spaventando stormi di passeri. Il cielo azzurro primaverile le accecava gli occhi.
Pensò al padre: le sue mani rugose impregnate di catrame, i capelli diradati ricoperti da una frangia laterale per nascondere la calvizie giallastra, il suo lavoro quotidiano sui filobus. Ora, quando avrebbe visto quelle macchine di ferro con corna buffe come baffi di grillo, avrebbe pensato a lui. Alle rughe del suo volto, alle sopracciglia spostate sul naso, alle parole che non avrebbe mai detto.
Gianni e Maria lo aspettavano al piano di sotto. Come al solito, si aggrapparono luno allaltra, come se una tempesta li avesse travolti, le gambe non trovavano più appiglio, proprio come Vittoria dopo la lunga malattia. Stavano per andarsene quando la porta si spalancò, il profumo di sole e dacqua entrò dalla strada. Alessandro, con la giacca da lavoro, reggeva la porta. Nelle mani aveva un mazzetto di tulipani. Vittoria si asciugò gli occhi con il palmo, sorrise e fece un passo avanti.




