La suocera che combatteva per suo figlio… contro di me e perfino contro suo nipote
La mamma di mio marito si chiama Rosanna De Luca. Fin dal primo sguardo mi è sembrata una donna forte, e non mi sbagliavo. Da subito ha fatto di tutto per farmi sentire non una nuora, ma un’invasore, una rivale che le aveva portato via il suo unico adorato figlio. Speravo che fosse solo gelosia, che col tempo si abituasse all’idea che nel cuore di suo figlio ora ci fosse anche un’altra donna. Ma non avrei mai immaginato che un giorno avrebbe lottato per la sua attenzione non solo contro di me… ma anche contro suo nipote.
Dopo che i nostri genitori si conobbero, mia mamma mi sussurrò preoccupata:
«Andatevene lontani, magari così vivrete in pace. Finché lei è vicina, non avrete tregua.»
Purtroppo, aveva ragione.
Vivevamo in un appartamento che mio marito, Matteo, aveva ereditato dalla nonna. E si trovava a soli dieci minuti a piedi da casa della suocera. Praticamente viveva con noi. Poteva bussare alle sette del mattino di sabato – «ho fatto i biscotti, devo farli assaggiare a mio figlio». Oppure arrivare a mezzanotte – «ho avuto un brutto presentimento, mi sentivo in ansia». A volte, tornando dal lavoro, la trovavo già seduta sulla panchina davanti al portone, pronta ad accompagnarci fino alla porta.
Resistevo. Chiudevo gli occhi, stringevo i denti, sorridevo come mi avevano insegnato. Ma un giorno dissi a Matteo:
«Amore, non va più così. È troppo pesante, non abbiamo più spazio né tranquillità. Parlale, per favore.»
Lui lo fece. Capii tutto il giorno dopo, quando ricevetti una chiamata con pianti disperati e una frase che non dimenticherò mai:
«Senza vergogna! Vuoi rubare un figlio a sua madre!»
Da quel momento, Rosanna cambiò strategia. Non veniva più a casa nostra senza invito, ma chiamava Matteo continuamente. «Ho la pressione alta», «il cuore mi batte forte», «mi sento sola», oppure preparava la sua «torta preferita»… e come poteva dire di no? Lui andava da lei col senso di colpa, e tornava dopo un’ora, a volte anche più tardi.
Mia mamma diceva che c’erano solo due vie: divorzio o pazienza. Scelsi la pazienza. Mi feci piccola, invisibile. Finché non rimasi incinta.
E all’improvviso, Matteo si svegliò. Cure, attenzioni, dolcezze – era il marito perfetto. Ma più ero felice io, più Rosanna diventava cupa. E iniziai a capire: era gelosa non solo di me… ma anche del bambino.
Il giorno delle dimissioni dall’ospedale, Matteo rischiò di arrivare in ritardo. Sua madre lo chiamò all’alba in preda al panico: «Sto male», «il cuore fa le bizze», «credo di morire». Invece del medico, chiamò suo figlio. Lui corse da lei, chiamò l’ambulanza, ma i dottori si strinsero nelle spalle: solo un po’ di pressione alta, niente di grave. Arrivò in ospedale tutto agitato, in colpa. Avevo già capito tutto.
Quando portammo il piccolo a casa, Rosanna venne a conoscere il nipote. Ma non lo guardava nemmeno. Girava per l’appartamento lamentandosi della solitudine, ripeteva quanto fosse dura per lei, e pretendeva che Matteo «andasse più spesso da sua madre invece di chiudersi lì». Persino sua sorella non resistette e le disse:
«Rosanna, ma dài, sei seria? C’è un bambino qui, è un giorno di festa. Che stai facendo?»
Era solo l’inizio. Ogni compleanno, festa o gita era seguita da una nuova «emergenza» di Rosanna. E non erano solo capricci: erano veri e propri spettacoli. Chiamate con lacrime finte, ricatti emotivi, scenate.
Quando persi il lavoro, rimasi a casa col bambino. Matteo lavorava il doppio, usciva presto e rientrava tardi. L’unico momento per stare col figlio erano i weekend. Ma anche quei due giorni, Rosanna non ce li lasciava. «Il rubinetto che perde», «spostare l’armadio», «vieni a tenermi compagnia».
Non ce la feci più. La chiamai io, con voce ferma:
«Rosanna, Matteo ha solo due giorni per stare con suo figlio. Verrà a trovarti, ma dopo. Lascialo essere un padre.»
E sai cosa mi rispose?
«Ha tutta la vita per fare il padre. La madre ce l’ha solo una. E poi, chissà se questo bambino sarà l’ultimo…»
In quel momento capii tutto. Per lei non contavamo nessuno – né il nipote, né io, né i sentimenti di suo figlio. Contava solo lei.
Poi arrivò il culmine. Il compleanno del bambino. Rosanna chiamò Matteo per «aggiustare il rubinetto». Proprio quel giorno. Lui rifiutò, e lei inscenò un dramma tra urla, minacce e un «attacco» di panico. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Matteo perse la pazienza per la prima volta:
«Mamma, ho una famiglia. E non permetterò che la distruggi. Ti voglio bene, ma non accorrerò più ad ogni tua chiamata.»
Ovviamente, diede la colpa a me. Per lei, la colpevole era sempre un’altra. Ma io non dissi nulla. Era stata lei a rovinare tutto. Con le sue mani, con la sua fame di attenzioni, con il suo egoismo.
A volte penso: se solo fosse stata una presenza gentile, umana… forse ora saremmo una grande famiglia. Invece, tra noi è rimasta solo terra bruciata.