LA BATTAGLIA SILENZIOSA

**LA BATTAGLIA SILENZIOSA**

Mi sono fermata qualche secondo in più a guardare il tramonto dalla finestra del salotto, stringendo una tazza di tè ormai freddo. Gli ultimi raggi del sole tingevano il cielo darancio, mescolandosi a sfumature viola e a un rosa pallido che svaniva nella notte. Era uno di quei momenti in cui il mondo sembra fermarsi, e nel suo silenzio, sentivo il battito del mio cuore. Ogni piccolo rumore della casalo scricchiolio del pavimento in legno, il ronzio lontano del frigorifero, persino il sibilo del vento tra i rami del vecchio ulivo che si piegava sulla finestrasembrava amplificato. Tutto era immobile, eppure carico di significato.

Cera qualcosa in quel crepuscolo che mi ricordava come anche le cose che finiscono possano essere belle. Che, sebbene un giorno svanisca lasciando un vuoto, porta con sé una luce che vale la pena osservare. Stringendo la tazza con entrambe le mani, sentivo il freddo della ceramica. Un promemoria, pensai, che il tempo non aspetta nessuno, nemmeno chi si aggrappa.

Mio fratello Luca entrò senza bussare, unabitudine che aveva da quando eravamo bambini. Aveva sempre saputo apparire nei momenti meno attesi. Lo vidi subito, nella penombra del salotto, con la giacca mezzo appesa, le mani in tasca e unespressione tra curiosità e preoccupazione.

«Sei ancora sveglia?» chiese con voce calma, senza forzarmi o affrettarmi.

«Non riesco a dormire» risposi, voltandomi verso di lui. «Pensavo a quello che hai detto settimane fa quella frase che hai sentito in quellintervista di Roberto Benigni il giorno in cui capirai che lasciar andare non significa sempre perdere»

Luca si avvicinò e si sedette accanto a me sul divano, lasciando uno spazio discreto tra noi. Guardò verso la finestra, verso il cielo che si oscurava lentamente, prima di volgere il viso verso di me. Il suo sguardo era comprensivo ma fermo.

«È vero» disse. «Sai? Anche io lo sto capendo.»

Lo fissai, con gli occhi lucidi, sentendo che in quelle parole cera un filo di connessione che sembrava spezzato da anni. Il peso di tutte le discussioni, di tutti i silenzi e i rimproveri, si concentrava in quel piccolo istante di riconoscimento reciproco.

«Ho cercato di tenere in vita tutto questo» sussurrai, a malapena udibile. «Anche se mi faceva solo male. Perché pensavo che arrendermi significasse ammettere di aver perso. Ma ogni litigio ogni rimprovero ogni silenzio pesante mi lasciava sempre più vuota.»

Luca respirò profondamente. Si piegò leggermente in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Il suo sguardo non era di giudizio, ma di riflessione, come di chi aveva portato a lungo un dolore silenzioso.

«E se la vera vittoria fosse rimanere integri?» propose. «E se lasciar andare non fosse arrendersi, ma proteggere ciò che non dovrebbe spezzarsi?»

Un lungo silenzio scese tra noi, quasi imbarazzante. Si sentiva solo il ticchettio dellorologio a muro e, ogni tanto, una macchina che passava fuori. Il tempo sembrava rallentare in quel salotto, come se tutto il mondo aspettasse che trovassi la risposta da sola.

«Fa male» confessai infine. «Fa male pensare che, per quante possibilità io dia, certe persone non cambieranno. Che ciò di cui ho bisogno non arriverà mai.»

Luca allungò la mano e me la prese delicatamente. Il calore del suo gesto mi ricordò che non ero sola.

«Forse non cambieranno. Nessuno lo sa. Ma tu puoi cambiare il modo in cui ami, il modo in cui te ne vai. E questo questo è già maturità.»

Appoggiai la fronte sulla sua spalla. Laroma del tè freddo si mescolava al profumo leggero che usavo sempre. La sensazione era agrodolce: sollievo e paura intrecciati.

«E se perdo qualcosa di importante?» sussurrai.

«Forse la perderai» rispose Luca con serenità. «Ma non i tuoi sogni. Non lamor proprio. Non la dignità di dire: questo non mi serve più.»

Quella notte, dopo ore di riflessione, feci una chiamata che sapevo sarebbe stata difficile. Non fu facile. Non urlai né rimproverai. Parlai con voce tremante ma chiara, ogni parola misurata per esprimere ciò che provavo senza distruggere quel poco di rispetto che ancora cera.

«Penso di dover lasciar andare tutto questo» dissi allaltra persona. «Non ti sorprenderà se dico che fa male. Preferisco fermarmi prima di dimenticare chi sono.»

Riattaccai e, per la prima volta in settimane, sentii di poter respirare con un po di libertà. Piansi, ma non era un pianto disperatoera un pianto di liberazione. Finalmente libera dal peso di portarmi addosso qualcosa che non mi apparteneva più.

Poco dopo, uscii in giardino con un vecchio quaderno, consumato dal tempo e dai ricordi, un posto dove avevo annotato i miei pensieri per anni. Mi sedetti sulla panchina, con le gambe incrociate e la schiena dritta, lasciando che la brezza mi accarezzasse il viso. Presi una penna e cominciai a scrivere:

*”Oggi ho capito che aggrapparsi a ciò che ti distrugge non è coraggio. È paura travestita. E preferisco essere giudicata per essere forte piuttosto che per essere a pezzi.”*

Sussurrai quella frase al vento, come se sperassi che il sole, ormai quasi nascosto dietro i palazzi, la sentisse. Ogni parola sembrava un sasso pesante che, cadendo, mi liberava spazio nel petto.

La mattina dopo, Luca mi trovò con uno sguardo più sereno, meno stanco. I miei occhi brillavano di una chiarezza nuova, come se avessero visto un orizzonte più ampio.

«Hai dormito?» chiese, anche se sapeva che era stata una notte breve.

«Poco» risposi. «Ma mi sento svegliata dentro.»

Nei giorni seguenti, mi resi conto che qualcosa in me era cambiato. Il modo in cui respiravo, come mi muovevo per casa, persino come guardavo le persone intorno a me, rifletteva una calma inaspettata. Imparai a mettere dei limiti senza sentirmi in colpa, a dire “no” senza paura, e ad ascoltare la mia voce interiore come mai prima.

Scoprii che lasciar andare non significa perdere. Significa ritrovarsi. Cè un potere silenzioso nelle decisioni che prendiamo per noi stessi. Cè vittoria nel non permettere che ciò che ci ferisce ci trascini giù.

Luca mi osservava in silenzio, orgoglioso. Sapeva che sua sorella stava facendo un passo che anche lui aveva impiegato anni a imparare. Che la sua forza non si misurava nel dolore che poteva sopportare, ma nella chiarezza con cui poteva affrontarlo.

Capii anche che la mia maturità non aveva bisogno di applausi o riconoscimenti. Non dovevo dimostrare niente al mondo. Era un processo intimo, silenzioso, personale. Ogni pensiero, ogni lacrima, ogni decisione, era un mattone nelle fondamenta di una versione di me più solida e autentica.

Settimane dopo, mentre camminavo per Roma, sentii che il peso di ciò che avevo lasciato alle spalle non mi trascinava più. Osservavo le persone con una miscela di compassione e distacco, capendo che tutti combattono battaglie

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