La chiamata inattesa

**La Chiamata Inattesa**

Matteo uscì dall’ufficio. Un cielo basso e grigio incombeva su Milano, schiacciando la città sotto il suo peso. Solo le croci sulle cupole dorate della Basilica di Sant’Ambrogio si protendevano verso l’alto, sfidando la foschia.

Una pioggerella fredda pungeva la pelle del viso mentre raggiungeva la sua Fiat. L’abitacolo odorava appena di deodorante. Matteo appoggiò le mani sul volante e rimase un attimo immobile, contento di aver ritirato l’auto dal meccanico prima di pranzo. Almeno non avrebbe dovuto aspettare il tram sotto la pioggia, stipato tra sconosciuti.

Accese il motore e l’abitacolo si riempì di una canzone pop fastidiosa. Abbassò il volume. «A casa!» si ordinò, imboccando viale Monza. Le dita tamburellavano sul volante a tempo di musica.

Venerdì. E di venerdì, lui e gli amici andavano in discoteca per staccare dalla settimana lavorativa. Cosa altro potevano fare dei giovani liberi, senza moglie, figli, o responsabilità?

L’appartamento lo accolse nel silenzio. Appena varcato l’ingresso, notò l’armadio spalancato. Un brutto presentimento gli strinse il petto. Si tolse le scarpe e, in calzini, andò in camera. Sbirciò nell’armadio, sapendo già cosa avrebbe trovato. Tra le sue camicie e giacche, appesi come fantasmi, i ganci vuoti dove prima c’erano i vestiti di Elena.

Se n’era andata. Ultimamente litigavano spesso, ma poi facevano pace. Gli aveva telefonato in ufficio, dicendo che quella sera non sarebbe venuta in discoteca. Lui si era distratto, poi era andato a prendere l’auto… «Si è offesa perché non l’ho richiamata? Ma si lascia per una cosa così?» pensò Matteo. «No. Ha calcolato tutto. Ha lasciato l’armadio aperto perché mi sentissi solo e in colpa. Avrebbe dovuto lasciare un biglietto con accuse e addii.» Si guardò intorno.

Vivevano insieme da sei mesi. Elena gli andava bene: carina, allegra, un po’ viziata. Allora era lui a non andarle bene. Ultimamente parlava sempre più spesso di matrimonio, di luna di miele… Lui scherzava via. Chiaro. Non aspettando risposte, aveva deciso di accelerare. Credeva che lui l’avrebbe chiamata, supplicata di tornare…

Matteo capì che era proprio quello che voleva fare. Comporre il numero di Elena, ma il telefono era spento. Gettò il cellulare sul divano.

La immaginò in cucina, appoggiata al lavandino, in equilibrio su una gamba mentre sbucciava le patate… Le mancava. Voleva che tornasse, subito. Si avviò in cucina. Nel lavello, piatti sporchi dalla colazione. Accanto, una bottiglia di vino vuota. «L’ha finita, allora era indecisa, agitata.» Questo lo rincuorò. Lavò i piatti. Infilò la bottiglia nel cestino, già strapieno.

Elena odiava i piatti sporchi. Li aveva lasciati lì per lui, come lezione. Per fargli capire quanto sarebbe stato difficile vivere da solo: lavare, buttare la spazzatura… Attrice! Ed era per questo che le voleva bene. Anche se glielo aveva detto solo all’inizio.

Notò un biglietto sul frigo, fermato da una calamita. «Me ne vado. Non sono sicura che dobbiamo continuare.» Niente spiegazioni, accuse, né firma.

E lui aveva già scelto l’anello. Aspettava solo lo stipendio per comprarlo e il momento giusto per mettersi in ginocchio e farle la proposta davanti a tutti.

«Se una ragazza se ne va, è per il meglio», cantò, parafrasando una vecchia canzone.

Nel silenzio della cucina, la voce gli suonò falsa e triste. «Tornerà. Sono orgoglioso anch’io. Non chiamerò. La farò soffrire.» Matteo prese il secchio e andò a buttare l’immondizia.

Al ritorno, ancora sulla porta, sentì il cellulare squillare. Senza togliersi le scarpe, corse al divano. Uno sconosciuto sul display. Rispondere? E se fosse Elena?

«Pronto», disse.

«Daniele, ciao.» Matteo si illuminò, credendo fosse Elena. «Sono Valentina. Temevo di chiamarti… Non mi hai promesso nulla, ma non so cosa fare…», disse una voce femminile.

«Chi parla? Valentina chi?» Matteo non notò neanche che l’aveva chiamato Daniele.

«Non ti ricordi di me? Allora non c’è nulla da dire.» E la chiamata cadde.

«Ma che diavolo…», imprecò ad alta voce.

Vide le impronte bagnate dei suoi scarponi sul tappeto e imprecò di nuovo. Il telefono squillò ancora.

«Daniele, volevo dirti…»

«Non sono Daniele. Mi chiamo Matteo. Ha sbagliato numero», spiegò.

«Mi hai mentito? Perché? Mi hai dato il tuo numero tu!», e glielo ripeté.

«Non ho mentito. Sono Matteo da ventisei anni. E non le ho dato il mio numero», rispose seccato.

«Ho sbagliato a chiamare…»

«No, ora non riattacchi. Se ha chiamato, mi dica cosa vuole.» Ma la sconosciuta riagganciò.

«Non risponderò più.» Spense la suoneria, ma non il telefono. Sperava ancora che Elena chiamasse, spiegasse, ponesse condizioni… Non fece in tempo a finire il pensiero che il cellulare vibrò, innervosendolo.

«Signorina… Valentina! Perché chiama e non dice cosa vuole?»

«Scusa…» La voce si interruppe in un sospiro, un singhiozzo, o forse un tonfo nell’acqua. «Non so cosa fare. Credevo che tra noi… Volevo dirti che è colpa mia… Tu non c’entri…»

«Di cosa non c’entro?!» urlò Matteo nel vuoto, perché Valentina aveva riagganciato.

Rifletté. L’ultima volta, la voce di Valentina era fioca, assonnata. E quel tonfo? Piangeva? Cosa stava succedendo? «È colpa mia, tu non c’entri…» Così si parla prima di… «Dio, cosa sta facendo?»

Chiamò un amico. Daniele era un gran seduttore, si portava a letto ragazze in discoteca.

«Allora, ci raggiungi? Dai, il divertimento è già iniziato!» Daniele urlava per coprire la musica.

«Dan, perché hai dato il mio numero a una certa Valentina?»

«Non conosco nessuna Valentina. Non ricordo», rispose Daniele. Forse era uscito, perché la musica era più bassa. «Lascia perdere. Conosciuta una, bella. Un paio di notti insieme…»

«Dove? A casa sua? Dimmi l’indirizzo», gridò Matteo.

«Vuoi tradire Elena? Lo dici subito! Era ora…» Daniele rise. «Ma non è il momento…»

«Le è successo qualcosa. Dove abita?» lo interruppe Matteo.

«Non ricordo. Aspetta… Via Garibaldi, credo. Un palazzo nuovo. La sua vecchia casa è lì accanto.»

«Numero civico?»

«Non ricordo. Terzo piano, forse. Di fronte alle scale. Sì.»

«Bene. Prendi un taxi e vieni là. Ci vediamo. Sbrigati!» gridò Matteo, riagganciando.

L’asfalto bagnato luccicava sotto i fari. Di venerdì sera, poche auto in giro. Matteo arrivò in fretta. Un palazzo alto sv**La Chiamata Inattesa**

Matteo uscì dall’ufficio. Un cielo basso e grigio incombeva su Milano, schiacciando la città sotto il suo peso. Solo le croci sulle cupole dorate della Basilica di Sant’Ambrogio si protendevano verso l’alto, sfidando la foschia.

Una pioggerella fredda pungeva la pelle del viso mentre raggiungeva la sua Fiat. L’abitacolo odorava appena di deodorante. Matteo appoggiò le mani sul volante e rimase un attimo immobile, contento di aver ritirato l’auto dal meccanico prima di pranzo. Almeno non avrebbe dovuto aspettare il tram sotto la pioggia, stipato tra sconosciuti.

Accese il motore e l’abitacolo si riempì di una canzone pop fastidiosa. Abbassò il volume. «A casa!» si ordinò, imboccando viale Monza. Le dita tamburellavano sul volante a tempo di musica.

Venerdì. E di venerdì, lui e gli amici andavano in discoteca per staccare dalla settimana lavorativa. Cosa altro potevano fare dei giovani liberi, senza moglie, figli, o responsabilità?

L’appartamento lo accolse nel silenzio. Appena varcato l’ingresso, notò l’armadio spalancato. Un brutto presentimento gli strinse il petto. Si tolte le scarpe e, in calzini, andò in camera. Sbirciò nell’armadio, sapendo già cosa avrebbe trovato. Tra le sue camicie e giacche, appesi come fantasmi, i ganci vuoti dove prima c’erano i vestiti di Elena.

Se n’era andata. Ultimamente litigavano spesso, ma poi facevano pace. Gli aveva telefonato in ufficio, dicendo che quella sera non sarebbe venuta in discoteca. Lui si era distratto, poi era andato a prendere l’auto… «Si è offesa perché non l’ho richiamata? Ma si lascia per una cosa così?» pensò Matteo. «No. Ha calcolato tutto. Ha lasciato l’armadio aperto perché mi sentissi solo e in colpa. Avrebbe dovuto lasciare un biglietto con accuse e addii.» Si guardò intorno.

Vivevano insieme da sei mesi. Elena gli andava bene: carina, allegra, un po’ viziata. Allora era lui a non andarle bene. Ultimamente parlava sempre più spesso di matrimonio, di luna di miele… Lui scherzava via. Chiaro. Non aspettando risposte, aveva deciso di accelerare. Credeva che lui l’avrebbe chiamata, supplicata di tornare…

Matteo capì che era proprio quello che voleva fare. Comporre il numero di Elena, ma il telefono era spento. Gettò il cellulare sul divano.

La immaginò in cucina, appoggiata al lavandino, in equilibrio su una gamba mentre sbucciava le patate… Le mancava. Voleva che tornasse, subito. Si avviò in cucina. Nel lavello, piatti sporchi dalla colazione. Accanto, una bottiglia di vino vuota. «L’ha finita, allora era indecisa, agitata.» Questo lo rincuorò. Lavò i piatti. Infilò la bottiglia nel cestino, già strapieno.

Elena odiava i piatti sporchi. Li aveva lasciati lì per lui, come lezione. Per fargli capire quanto sarebbe stato difficile vivere da solo: lavare, buttare la spazzatura… Attrice! Ed era per questo che le voleva bene. Anche se glielo aveva detto solo all’inizio.

Notò un biglietto sul frigo, fermato da una calamita. «Me ne vado. Non sono sicura che dobbiamo continuare.» Niente spiegazioni, accuse, né firma.

E lui aveva già scelto l’anello. Aspettava solo lo stipendio per comprarlo e il momento giusto per mettersi in ginocchio e farle la proposta davanti a tutti.

«Se una ragazza se ne va, è per il meglio», cantò, parafrasando una vecchia canzone.

Nel silenzio della cucina, la voce gli suonò falsa e triste. «Tornerà. Sono orgoglioso anch’io. Non chiamerò. La farò soffrire.» Matteo prese il secchio e andò a buttare l’immondizia.

Al ritorno, ancora sulla porta, sentì il cellulare squillare. Senza togliersi le scarpe, corse al divano. Uno sconosciuto sul display. Rispondere? E se fosse Elena?

«Pronto», disse.

«Daniele, ciao.» Matteo si illuminò, credendo fosse Elena. «Sono Valentina. Temevo di chiamarti… Non mi hai promesso nulla, ma non so cosa fare…», disse una voce femminile.

«Chi parla? Valentina chi?» Matteo non notò neanche che l’aveva chiamato Daniele.

«Non ti ricordi di me? Allora non c’è nulla da dire.» E la chiamata cadde.

«Ma che diavolo…», imprecò ad alta voce.

Vide le impronte bagnate dei suoi scarponi sul tappeto e imprecò di nuovo. Il telefono squillò ancora.

«Daniele, volevo dirti…»

«Non sono Daniele. Mi chiamo Matteo. Ha sbagliato numero», spiegò.

«Mi hai mentito? Perché? Mi hai dato il tuo numero tu!», e glielo ripeté.

«Non ho mentito. Sono Matteo da ventisei anni. E non le ho dato il mio numero», rispose seccato.

«Ho sbagliato a chiamare…»

«No, ora non riattacchi. Se ha chiamato, mi dica cosa vuole.» Ma la sconosciuta riagganciò.

«Non risponderò più.» Spense la suoneria, ma non il telefono. Sperava ancora che Elena chiamasse, spiegasse, ponesse condizioni… Non fece in tempo a finire il pensiero che il cellulare vibrò, innervosendolo.

«Signorina… Valentina! Perché chiama e non dice cosa vuole?»

«Scusa…» La voce si interruppe in un sospiro, un singhiozzo, o forse un tonfo nell’acqua. «Non so cosa fare. Credevo che tra noi… Volevo dirti che è colpa mia… Tu non c’entri…»

«Di cosa non c’entro?!» urlò Matteo nel vuoto, perché Valentina aveva riagganciato.

Rifletté. L’ultima volta, la voce di Valentina era fioca, assonnata. E quel tonfo? Piangeva? Cosa stava succedendo? «È colpa mia, tu non c’entri…» Così si parla prima di… «Dio, cosa sta facendo?»

Chiamò un amico. Daniele era un gran seduttore, si portava a letto ragazze in discoteca.

«Allora, ci raggiungi? Dai, il divertimento è già iniziato!» Daniele urlava per coprire la musica.

«Dan, perché hai dato il mio numero a una certa Valentina?»

«Non conosco nessuna Valentina. Non ricordo», rispose Daniele. Forse era uscito, perché la musica era più bassa. «Lascia perdere. Conosciuta una, bella. Un paio di notti insieme…»

«Dove? A casa sua? Dimmi l’indirizzo», gridò Matteo.

«Vuoi tradire Elena? Lo dici subito! Era ora…» Daniele rise. «Ma non è il momento…»

«Le è successo qualcosa. Dove abita?» lo interruppe Matteo.

«Non ricordo. Aspetta… Via Garibaldi, credo. Un palazzo nuovo. La sua vecchia casa è lì accanto.»

«Numero civico?»

«Non ricordo. Terzo piano, forse. Di fronte alle scale. Sì.»

«Bene. Prendi un taxi e vieni là. Ci vediamo. Sbrigati!» gridò Matteo, riagganciando.

L’asfalto bagnato luccicava sotto i fari. Di venerdì sera, poche auto in giro. Matteo arrivò in fretta. Un palazzo alto svMentre il sole tramontava dietro i tetti di Milano, Matteo capì che forse non tutto era perduto, e che a volte basta una telefonata inaspettata a cambiare una vita intera.

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