La chiave in mano La pioggia batteva monotona contro il vetro della piccola casa popolare, scandendo il tempo come un vecchio metronomo dimenticato. Michele, seduto sul bordo del letto sfondato, si curvava su se stesso, come a volersi rimpicciolire agli occhi del proprio destino. Le sue mani grandi, un tempo forti al tornio della fabbrica, giacevano ora inerti sulle ginocchia, stringendosi a vuoto per trattener l’impalpabile. Non guardava il muro: leggeva sulle vecchie tappezzerie la mappa dei propri itinerari disperati, dalla ASL al centro diagnostico privato. Lo sguardo sbiadito, come una pellicola in bianco e nero, eternamente bloccata sullo stesso fotogramma. Un altro dottore, l’ennesimo, con il consueto sussiego: «Eh, signor Michele, l’età è quella che è…». Non provava più rabbia: la rabbia richiede energia, e quella era finita. Gli rimaneva solo la stanchezza. Il mal di schiena non era più solo un sintomo, era diventato il suo orizzonte, il rumore bianco che sovrastava ogni gesto e pensiero, il paesaggio stesso della sua impotenza. Obbediva ai piani terapeutici: le pillole, le pomate, le sedute rigide di fisioterapia steso sulla brandina gelida, sentendosi un vecchio macchinario smontato e dimenticato tra la ferraglia. E attendeva. Passivamente, ormai quasi con fede: aspettando che qualcuno — lo Stato, un luminare, un caffé di professore — arrivasse con il salvagente, prima di sprofondare nel proprio pantano. L’orizzonte della sua vita era solo la grigia cortina di pioggia oltre la finestra. La sua volontà, un tempo capace di risolvere ogni problema tra casa e officina, si era ridotta a una sola funzione: resistere, sperando che il miracolo venisse dall’esterno. La famiglia… C’era, svanita col tempo. Prima la figlia, Caterina, brillante, emigrata a Milano «per una vita migliore». «Papà, vi aiuterò appena mi sistemo», diceva al telefono. Non importava. Poi se ne andò la moglie, ma non solo al supermercato. Raffaella, portata via da un male spietato, troppo tardi scoperto. Così Michele era rimasto solo con la schiena dolente e l’insopportabile sensazione di colpa: lui, mezzo invalido, era ancora lì; e lei, il suo pilastro, la sua energia, la sua Raffa — svanita in tre mesi. La assistette fino all’ultimo, quando la tosse divenne rantolo e negli occhi comparve quello strano guizzo sfuggente. L’ultima parola, sussurrata in ospedale stringendogli la mano: «Resisti, Michè…». Lui crollò davvero, allora. Caterina chiamava, lo voleva a Milano, nell’appartamentino in affitto. Ma cosa ci faceva lì? Un peso in casa d’altri. E poi, lei indietro non sarebbe mai tornata. Ora solo Valeria, la sorella minore di Raffaella, lo veniva a trovare: una volta a settimana, con una zuppa nel contenitore, un po’ di pasta e una scatola di antidolorifici. «Come va, Michè?» domandava togliendosi il cappotto. «Niente di che», rispondeva lui. E in silenzio, mentre lei rimetteva ordine tra le sue cose — quasi che il riordino degli oggetti potesse risistemare la sua vita —. Poi Valeria usciva, lasciando nell’aria un’eco di profumo estraneo e un senso tangibile di dovere assolto. Grato, sì. Ma infinitamente solo. Era più che solitudine: era una cella auto-costruita col proprio dolore, la propria ira silenziosa verso un mondo ingiusto. Una sera, più triste delle altre, lo sguardo cadde sul tappeto malconcio: c’era una chiave per terra, caduta di mano tornando dall’ambulatorio. Solo una chiave, semplice metallo. Ma la fissò come se stesse vedendo qualcosa di prezioso. Pensò a suo nonno Pietro, mutilato di guerra, che con la sola mano rimasta e una vecchia forchetta sapeva ancora allacciarsi le scarpe, seduto sullo sgabello della cucina. «Vedi, Michelino», diceva il nonno, torvo ma sorridente, «l’attrezzo è sempre lì accanto. A volte sembra cianfrusaglia, ma la cianfrusaglia salva la vita. Basta guardarla con occhi nuovi». Da ragazzo, Michele pensava fossero storie da vecchio per rincuorare un bambino. Ora, gli risuonavano come rimprovero: il nonno non aspettava aiuti, prendeva quel che aveva e vinceva, non sul dolore o la perdita, ma sulla propria impotenza. E lui, Michele? Solo un’attesa amara e passiva, in attesa della grazia degli altri. Quel pensiero lo scosse. Ora quella chiave… Quell’oggetto portava con sé l’eco delle parole del nonno, muta esortazione. Si alzò — il familiare lamento delle ossa gli fece vergogna persino nella stanza vuota. Due passi trascinati, la mano sul dorso dolorante, prese la chiave. Tentò di raddrizzarsi — il solito coltello di dolore alla schiena. Si fermò, stringendo i denti, aspettando che la marea si ritirasse. Ma invece di cedere e tornare in branda, con movimenti lenti e prudenti si accostò al muro. Senza pensieri, d’istinto, si girò di spalle, appoggiò il lato cieco della chiave all’altezza del punto dolente sulla tappezzeria. Cominciò a premerci contro, tutto il suo peso concentrato lì. Non era un massaggio, né una cura. Era esercitare pressione: dolore contro dolore, realtà contro realtà. Scoprì che lì, nell’incontro fra due ostinazioni, qualcosa cedeva dentro, anche solo di un millimetro. Spostò la chiave un po’ più in alto, poi più in basso. Provò ancora. Ogni gesto era lento, in ascolto dei segnali del proprio corpo. Non una cura, ma una trattativa. Ripeté il gesto anche la sera seguente. E quella dopo ancora. Trovò punti in cui la pressione gli dava sollievo invece che dolore, come se allentasse la morsa interna. Cominciò ad appoggiarsi anche allo stipite, facendovi lievi esercizi di allungamento. Il bicchiere d’acqua sul comodino gli ricordò di bere, semplicemente. Gratis. Michele aveva smesso di attendere, a braccia conserte. Usava ciò che aveva: la chiave, il muro, il pavimento per stirarsi, la caparbietà. Iniziò un quaderno, non del dolore ma dei «successi della chiave»: «Oggi sono riuscito a stare in piedi ai fornelli cinque minuti in più». Sul davanzale mise tre scatole di pelati vuote: dentro un po’ di terra del giardinetto, qualche bulbo di cipolla. Non era un orto, ma tre barattoli di vita cui badare. Passò un mese. Dal dottore, guardando le nuove lastre, questi alzò le sopracciglia sorpreso. — Ci sono cambiamenti. Si è esercitato? — Sì — rispose Michele —. Con ciò che avevo a portata di mano. Non parlò della chiave; il medico non avrebbe capito. Ma lui sapeva: la salvezza non arriva come una nave in porto. Giace silenziosa sul tappeto, mentre tu fissi il muro e aspetti che qualcuno ti accenda la luce. Un mercoledì, quando Valeria arrivò con la zuppa, restò sulla porta: vidi il verde giovane dei cipollotti nei barattoli sul davanzale; la stanza non odorava più di chiuso e medicine, ma di qualcos’altro. Di speranza. — Ma… che hai combinato? — chiese lei stupita, guardandolo, stabile in piedi alla finestra. Michele, mentre annaffiava lentamente il suo piccolo orto, si voltò. — L’orto — disse solo. Poi, dopo una pausa, aggiunse: — Se vuoi, ti do due cipollotti freschi per la zuppa. Quella sera, lei restò più a lungo. Bevvero il tè, e lui, senza lamentarsi della salute, le raccontò della scala del condominio, che ora risaliva a piccoli passi un piano in più ogni giorno. La salvezza non aveva i contorni del Dottor Sorriso con l’elixir magico. Aveva la forma di una chiave, di uno stipite, di una scatola di pelati, di una semplice scala di cemento. Non cancellava dolore né solitudine né età. Ma aveva rimesso, nelle sue mani, non la vittoria della guerra, bensì la possibilità di piccole battaglie vinte ogni santo giorno. E così, quando smetti di aspettare la scala d’oro dal cielo e guardi quella, normale, in cemento sotto ai piedi, scopri che ogni passo in più è già la vita. Lenta, cauta, gradino dopo gradino. Ma — verso l’alto. Sul davanzale, nei tre barattoli, cresceva il cipollotto più bello del mondo.

La chiave in mano

La pioggia tamburella monotona contro i vetri dellappartamento, come un metronomo che segna il tempo che passa. Michele è seduto sul bordo del vecchio letto consunto, incurvato su se stesso, come se volesse diventare più piccolo, sparire agli occhi del suo stesso destino.

Le sue mani grandi, un tempo forti e abituate a lavorare in officina, ora riposano inerti sulle ginocchia. Ogni tanto le dita si stringono, come a voler afferrare qualcosa che non cè più. Non guarda il muro, ma vede sulla tappezzeria logora una mappa dei percorsi senza speranza: dalla ASL comunale al centro diagnostico a pagamento. Il suo sguardo è scolorito come una vecchia pellicola ferma sullo stesso fotogramma.

Un altro specialista. Unaltra occhiata compassionevole, un altro Signor Michele, ormai anche letà conta, che suona come una sentenza. Non si arrabbia, non ne ha più la forza. Rimane solo la stanchezza.

Il mal di schiena non è più solo un sintomo: è diventato il suo paesaggio privato, lo sfondo invisibile di ogni gesto, di ogni pensiero, un rumore bianco di impotenza che copre tutto il resto.

Segue ogni prescrizione: prende medicinali, si spalma le creme, si sdraia sulla branda fredda della fisioterapia, sentendosi come un pezzo rotto lasciato in un magazzino.

E nel frattempo aspetta. Passivo, quasi con fede cieca, quel salvagente che qualcuno lo Stato, un geniale dottore, un luminare un giorno lancerà per salvarlo, mentre lui affonda piano nel fango.

Scruta il proprio orizzonte, ma vede solo la pioggia grigia oltre la finestra. La volontà, quella che gli permetteva di risolvere ogni problema in officina e a casa, ora si è ridotta a ununica funzione: resistere e sperare in un miracolo dallesterno.

La famiglia Cera, un tempo, ma si è sciolta in fretta, come neve sulla strada. Gli anni sono volati senza accorgersene. Prima è andata via la figlia la sua brava Caterina a Milano per una vita migliore. Non si era opposto alla sua scelta, voleva il meglio per lei. Papà, appena mi sistemo ti aiuto io, gli diceva al telefono. Ma ormai non importava più.

Poi è andata via anche la moglie. Non al supermercato sotto casa, ma per sempre. Rosa se nè andata in fretta un tumore spietato, scoperto troppo tardi. Michele è rimasto da solo: schiena a pezzi e il silenzioso rimorso di essere ancora vivo, mentre lei, la sua forza, il suo motore, la sua Rosina, si spegneva in tre mesi. Lha accudita fino allultimo, finché la tosse non è diventata roca e nei suoi occhi non è apparso quel lampo sfuggente. Le ultime parole, in ospedale, stringendogli la mano: Resisti, Michè Lui non ha resistito. Si è rotto per sempre dentro.

Caterina lo chiama, gli propone di andare a stare da lei nella sua piccola casa in affitto, cerca di convincerlo. Ma a cosa servirebbe? In una casa estranea. Non vuole essere un peso. E tanto lei non tornerà indietro.

Adesso lo viene a trovare solo la sorella minore di Rosa, Valeria. Una volta a settimana, come da programma, gli porta la minestra nel barattolo, del riso o della pasta con le polpette e una scatola nuova di antidolorifici.

Allora, Michè? domanda, togliendosi il cappotto. Lui annuisce: Niente di nuovo. Stanno in silenzio, mentre Valeria rassetta la sua stanza, come se mettere a posto le cose potesse mettere a posto anche la sua vita. Poi se ne va, lasciando dietro sé il profumo del suo dopobarba e una sensazione fisica di dovere.

È grato. E infinitamente solo. La sua solitudine non è solo fisica: è una cella costruita dalla propria impotenza, dal dolore e da una rabbia tranquilla verso un mondo ingiusto.

Una sera, quando si sente più vuoto del solito, lo sguardo vaga sul tappeto stinto e si ferma su una chiave lasciata a terra. Forse gli è caduta quando, con fatica, era rientrato dalla ASL.

Solo una chiave, nulla di speciale. Un pezzo di metallo. Eppure la osserva come fosse la prima volta. Sta lì, in silenzio. Aspetta.

Ricorda il nonno. Nitidamente, come se qualcuno avesse acceso la luce in una stanza buia della memoria. Il nonno, Pietro Giorgio, con la manica vuota infilata nella cintura, si sedeva su uno sgabello e riusciva a legarsi le scarpe con una mano sola e una forchetta rotta. Con calma, concentrazione e una smorfia di trionfo quando ci riusciva.

Vedi, Michelino, diceva, e nei suoi occhi brillava la vittoria della mente sulle avversità, Lattrezzo è sempre lì vicino a te. A volte non sembra uno strumento, sembra solo un ferro vecchio. Limportante è saper vedere negli oggetti inutili un alleato.

Da bambino gli sembravano solo chiacchiere da vecchio, favole per tirare su il morale. Il nonno era un eroe, e si sa, gli eroi possono tutto. Ma lui, Michele, era solo un uomo normale, e la sua battaglia contro la schiena e contro la solitudine non lasciava spazio a magie con gli utensili.

Ora però, fissando quella chiave, la scena riaffiora non come una favola, ma come un rimprovero silenzioso. Il nonno non aspettava aiuto. Usava quello che aveva: una forchetta rotta, ma vinceva. Non la malattia, non la perdita: vinceva limpotenza.

E lui, Michele? Si è limitato ad aspettare, passivo, il favore di qualcun altro. Il pensiero lo scuote.

Ed ecco la chiave Quel pezzo di metallo, che racchiude leco delle parole del nonno, ora sembra un comando silenzioso. Si alza, con il solito lamento delle ossa a vergognarsi anche da solo. Fa due passi trascinati, si stira. Le articolazioni scricchiolano come vetro rotto. Afferra la chiave. Prova a raddrizzarsi una fitta tagliente lo colpisce in fondo alla schiena. Rimane fermo, i denti serrati, aspettando che la morsa si allenti. Però, invece di arrendersi e tornare nel letto, lentamente e con cautela, si avvicina al muro.

Non pensa, non ragiona: si lascia guidare dal desiderio. Si gira con le spalle contro la parete. Premendo il lato arrotondato della chiave contro la tappezzeria, allaltezza del punto dolente, comincia a spingere con delicatezza, usando tutto il suo peso.

Non vuole massaggiare o sciogliere; non è una terapia medica. È un atto di pressione, duro e profondo, che mette la realtà contro la realtà, il dolore contro il dolore.

Trova un punto dove la pressione porta uno strano sollievo come se qualcosa dentro di lui per un attimo si sciogliesse. Sposta la chiave più in alto, poi più in basso. Ripete il gesto.

Ogni movimento è lento, attento, come un dialogo con il suo corpo. Non è una cura. Sono trattative. E lo strumento su quella trattativa non è un sofisticato apparecchio medico, ma una chiave vecchia.

È assurdo. Una chiave non è una panacea. La sera dopo, quando il dolore ritorna, lo ripete. E ancora. Individua i punti, dove quella pressione non fa male ma porta sollievo, quasi come se riuscisse ad allentare la morsa dallinterno.

Poi comincia a usare lo stipite della porta per fare leggere trazioni. Un bicchiere dacqua sul comodino lo richiama: Bevi. Solo acqua, gratis.

Michele smette di aspettare a mani giunte. Comincia a usare ciò che ha: la chiave, lo stipite, il pavimento per i piccoli esercizi, la sua stessa volontà. Prende un quadernino, non per annotare il dolore, ma le vittorie della chiave: Oggi sono rimasto ai fornelli cinque minuti in più.

Sulla finestra mette tre lattine vuote di pelati che aveva pensato di buttare. Ci versa della terra presa nel piccolo giardino del portone, pianta qualche bulbo di cipolla. Non è un orto. Sono tre barattoli di vita di cui ora si sente responsabile.

Passa un mese. Alla visita il medico, guardando le nuove lastre, alza un sopracciglio, stupito.

Ci sono cambiamenti. Ha fatto esercizio?

Sì, risponde Michele semplicemente. Ho usato quello che avevo in casa.

Non racconta della chiave. Non capirebbero. Ma Michele lo sa. La salvezza non è arrivata su uno yacht. Era lì, sul pavimento, mentre lui fissava il muro aspettando che qualcuno accendesse la luce al posto suo.

Un mercoledì, quando Valeria compare con la zuppa, rimane inchiodata sulluscio. Sul davanzale, dalle lattine, cresce un verde di cipolla giovane. Nellaria non cè odore di stantio o di medicine, ma qualcosa di diverso, che porta speranza.

Ma che cosè? è tutto ciò che riesce a dire, guardando Michele, in piedi, sicuro, vicino alla finestra.

Michele, che proprio in quel momento sta innaffiando le sue piantine con una tazza, si volta.

Lorto, dice semplicemente. E, dopo una pausa: Ne vuoi un po per la tua zuppa? Fresco, coltivato da me.

Quella sera lei si trattiene più a lungo del solito. Bevono il tè, e lui, senza lamentarsi della salute, racconta della scala del palazzo che ora riesce a salire, ogni giorno, di un piano in più.

La salvezza non è apparsa con le sembianze del dottor Balanzone e una pozione magica. Si è nascosta in una chiave, uno stipite, una lattina vuota, una scala qualsiasi.

Non ha cancellato dolore, né lutto, né vecchiaia. Ma gli ha messo in mano degli strumenti non per vincere la guerra, ma per combattere ogni giorno le sue piccole battaglie.

E così, quando smetti di aspettare la scala doro dal cielo e ti accorgi di quella di cemento sotto i piedi, scopri che salire, piano piano, è già vivere. Lentamente, in equilibrio, un gradino dopo laltro, ma sempre in su.

E sul davanzale, in tre barattoli di latta, cresce una cipolla rigogliosa. Lorto più bello del mondo.

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La chiave in mano La pioggia batteva monotona contro il vetro della piccola casa popolare, scandendo il tempo come un vecchio metronomo dimenticato. Michele, seduto sul bordo del letto sfondato, si curvava su se stesso, come a volersi rimpicciolire agli occhi del proprio destino. Le sue mani grandi, un tempo forti al tornio della fabbrica, giacevano ora inerti sulle ginocchia, stringendosi a vuoto per trattener l’impalpabile. Non guardava il muro: leggeva sulle vecchie tappezzerie la mappa dei propri itinerari disperati, dalla ASL al centro diagnostico privato. Lo sguardo sbiadito, come una pellicola in bianco e nero, eternamente bloccata sullo stesso fotogramma. Un altro dottore, l’ennesimo, con il consueto sussiego: «Eh, signor Michele, l’età è quella che è…». Non provava più rabbia: la rabbia richiede energia, e quella era finita. Gli rimaneva solo la stanchezza. Il mal di schiena non era più solo un sintomo, era diventato il suo orizzonte, il rumore bianco che sovrastava ogni gesto e pensiero, il paesaggio stesso della sua impotenza. Obbediva ai piani terapeutici: le pillole, le pomate, le sedute rigide di fisioterapia steso sulla brandina gelida, sentendosi un vecchio macchinario smontato e dimenticato tra la ferraglia. E attendeva. Passivamente, ormai quasi con fede: aspettando che qualcuno — lo Stato, un luminare, un caffé di professore — arrivasse con il salvagente, prima di sprofondare nel proprio pantano. L’orizzonte della sua vita era solo la grigia cortina di pioggia oltre la finestra. La sua volontà, un tempo capace di risolvere ogni problema tra casa e officina, si era ridotta a una sola funzione: resistere, sperando che il miracolo venisse dall’esterno. La famiglia… C’era, svanita col tempo. Prima la figlia, Caterina, brillante, emigrata a Milano «per una vita migliore». «Papà, vi aiuterò appena mi sistemo», diceva al telefono. Non importava. Poi se ne andò la moglie, ma non solo al supermercato. Raffaella, portata via da un male spietato, troppo tardi scoperto. Così Michele era rimasto solo con la schiena dolente e l’insopportabile sensazione di colpa: lui, mezzo invalido, era ancora lì; e lei, il suo pilastro, la sua energia, la sua Raffa — svanita in tre mesi. La assistette fino all’ultimo, quando la tosse divenne rantolo e negli occhi comparve quello strano guizzo sfuggente. L’ultima parola, sussurrata in ospedale stringendogli la mano: «Resisti, Michè…». Lui crollò davvero, allora. Caterina chiamava, lo voleva a Milano, nell’appartamentino in affitto. Ma cosa ci faceva lì? Un peso in casa d’altri. E poi, lei indietro non sarebbe mai tornata. Ora solo Valeria, la sorella minore di Raffaella, lo veniva a trovare: una volta a settimana, con una zuppa nel contenitore, un po’ di pasta e una scatola di antidolorifici. «Come va, Michè?» domandava togliendosi il cappotto. «Niente di che», rispondeva lui. E in silenzio, mentre lei rimetteva ordine tra le sue cose — quasi che il riordino degli oggetti potesse risistemare la sua vita —. Poi Valeria usciva, lasciando nell’aria un’eco di profumo estraneo e un senso tangibile di dovere assolto. Grato, sì. Ma infinitamente solo. Era più che solitudine: era una cella auto-costruita col proprio dolore, la propria ira silenziosa verso un mondo ingiusto. Una sera, più triste delle altre, lo sguardo cadde sul tappeto malconcio: c’era una chiave per terra, caduta di mano tornando dall’ambulatorio. Solo una chiave, semplice metallo. Ma la fissò come se stesse vedendo qualcosa di prezioso. Pensò a suo nonno Pietro, mutilato di guerra, che con la sola mano rimasta e una vecchia forchetta sapeva ancora allacciarsi le scarpe, seduto sullo sgabello della cucina. «Vedi, Michelino», diceva il nonno, torvo ma sorridente, «l’attrezzo è sempre lì accanto. A volte sembra cianfrusaglia, ma la cianfrusaglia salva la vita. Basta guardarla con occhi nuovi». Da ragazzo, Michele pensava fossero storie da vecchio per rincuorare un bambino. Ora, gli risuonavano come rimprovero: il nonno non aspettava aiuti, prendeva quel che aveva e vinceva, non sul dolore o la perdita, ma sulla propria impotenza. E lui, Michele? Solo un’attesa amara e passiva, in attesa della grazia degli altri. Quel pensiero lo scosse. Ora quella chiave… Quell’oggetto portava con sé l’eco delle parole del nonno, muta esortazione. Si alzò — il familiare lamento delle ossa gli fece vergogna persino nella stanza vuota. Due passi trascinati, la mano sul dorso dolorante, prese la chiave. Tentò di raddrizzarsi — il solito coltello di dolore alla schiena. Si fermò, stringendo i denti, aspettando che la marea si ritirasse. Ma invece di cedere e tornare in branda, con movimenti lenti e prudenti si accostò al muro. Senza pensieri, d’istinto, si girò di spalle, appoggiò il lato cieco della chiave all’altezza del punto dolente sulla tappezzeria. Cominciò a premerci contro, tutto il suo peso concentrato lì. Non era un massaggio, né una cura. Era esercitare pressione: dolore contro dolore, realtà contro realtà. Scoprì che lì, nell’incontro fra due ostinazioni, qualcosa cedeva dentro, anche solo di un millimetro. Spostò la chiave un po’ più in alto, poi più in basso. Provò ancora. Ogni gesto era lento, in ascolto dei segnali del proprio corpo. Non una cura, ma una trattativa. Ripeté il gesto anche la sera seguente. E quella dopo ancora. Trovò punti in cui la pressione gli dava sollievo invece che dolore, come se allentasse la morsa interna. Cominciò ad appoggiarsi anche allo stipite, facendovi lievi esercizi di allungamento. Il bicchiere d’acqua sul comodino gli ricordò di bere, semplicemente. Gratis. Michele aveva smesso di attendere, a braccia conserte. Usava ciò che aveva: la chiave, il muro, il pavimento per stirarsi, la caparbietà. Iniziò un quaderno, non del dolore ma dei «successi della chiave»: «Oggi sono riuscito a stare in piedi ai fornelli cinque minuti in più». Sul davanzale mise tre scatole di pelati vuote: dentro un po’ di terra del giardinetto, qualche bulbo di cipolla. Non era un orto, ma tre barattoli di vita cui badare. Passò un mese. Dal dottore, guardando le nuove lastre, questi alzò le sopracciglia sorpreso. — Ci sono cambiamenti. Si è esercitato? — Sì — rispose Michele —. Con ciò che avevo a portata di mano. Non parlò della chiave; il medico non avrebbe capito. Ma lui sapeva: la salvezza non arriva come una nave in porto. Giace silenziosa sul tappeto, mentre tu fissi il muro e aspetti che qualcuno ti accenda la luce. Un mercoledì, quando Valeria arrivò con la zuppa, restò sulla porta: vidi il verde giovane dei cipollotti nei barattoli sul davanzale; la stanza non odorava più di chiuso e medicine, ma di qualcos’altro. Di speranza. — Ma… che hai combinato? — chiese lei stupita, guardandolo, stabile in piedi alla finestra. Michele, mentre annaffiava lentamente il suo piccolo orto, si voltò. — L’orto — disse solo. Poi, dopo una pausa, aggiunse: — Se vuoi, ti do due cipollotti freschi per la zuppa. Quella sera, lei restò più a lungo. Bevvero il tè, e lui, senza lamentarsi della salute, le raccontò della scala del condominio, che ora risaliva a piccoli passi un piano in più ogni giorno. La salvezza non aveva i contorni del Dottor Sorriso con l’elixir magico. Aveva la forma di una chiave, di uno stipite, di una scatola di pelati, di una semplice scala di cemento. Non cancellava dolore né solitudine né età. Ma aveva rimesso, nelle sue mani, non la vittoria della guerra, bensì la possibilità di piccole battaglie vinte ogni santo giorno. E così, quando smetti di aspettare la scala d’oro dal cielo e guardi quella, normale, in cemento sotto ai piedi, scopri che ogni passo in più è già la vita. Lenta, cauta, gradino dopo gradino. Ma — verso l’alto. Sul davanzale, nei tre barattoli, cresceva il cipollotto più bello del mondo.