La cognata ha trasformato la nostra vita in un inferno privato, finché non sono esplosa.

**10 Settembre 2024**

A volte il disastro arriva senza bussare. Non sfonda porte, non suona campanelli d’allarme. Entra nella tua vita con un trucco appariscente, un sorriso civettuolo e una frase come: «Non sei affatto come mi immaginavo». Così è entrata nella nostra casa Ginevra – la sorellastra di mio marito, la coccola di mamma Rosa, la ragazza per cui ho rischiato di mollare tutto e scappare.

Quella sera sembrava una serata come tutte le altre. Per la prima volta in settimane, ero uscita dal lavoro in orario, avevo preso nostra figlia Beatrice dall’asilo e ci eravamo fermate al parco. Aria tiepida, risate di bambini, quella stanchezza felice. Tornammo a casa verso le otto. Non avevo nemmeno finito di cambiarmi quando squillò il telefono: era Marco.

«Amore, sto andando a prendere Ginevra», mi disse, calmo.

«Ginevra? Quella… sorellastra?» chiesi, sorpresa.

«Sì, ha divorziato. È tornata per restare.»

Di Ginevra sapevo solo ciò che mi era stato raccontato. Dieci anni fa, suo padre aveva sposato la madre di Marco, Rosa. Da allora, Ginevra era diventata una specie di santa in quella casa. Mia suocera la adorava. Forse per la sua bellezza, o perché sapeva piangere al momento giusto. Marco non ne parlava mai troppo. Io non avevo mai chiesto. Ma quando tornò a casa quasi a mezzanotte con una valigia enorme e un sorriso stanco, capii che la nostra vita non sarebbe più stata la stessa.

Il giorno dopo andammo a conoscerla. Ginevra ci aprì la porta in pigiama, con l’eyeliner sbavato e un sorriso finto.

«Ciao! Allora tu sei la moglie di Marco? Mh… Pensavo fossi… beh, non importa.»

Mia suocera, raggiante, aveva imbandito la tavola come per un banchetto di nozze: sottaceti, pollo, torte salate. Stava seduta accanto a Ginevra e continuava a ripetere quanto fosse stanca, quanto fosse difficile con suo marito, e come «meritasse di ricominciare». Poi, tra un boccone e l’altro, lasciò cadere:

«Marco, non potresti aiutare Ginevrina a trovare lavoro? Tu hai tanti contatti.»

Così iniziò un nuovo capitolo. Marco si dava da fare, cercava offerte di lavoro, chiamava amici. Io cercavo soluzioni per un appartamento. Alla fine i vicini del piano di sopra affittavano un monolocale – li convincemo. Marco le sistemò anche i documenti. Tutto per la «povera ragazza a cui la vita è stata crudele».

Poi iniziò l’incubo. Mattina: Ginevra. Sera: Ginevra. Non aveva la macchina, dovevamo farle da taxi. Non cucinava mai – veniva da noi. Poteva presentarsi alle nove di sera, piantarsi in mezzo alla cucina e annunciare:

«Non ho mangiato e oggi sono stremata. Avete fatto qualcosa?»

Una volta organizzò una festa nel suo appartamento, musica a tutto volume, i vicini chiamarono i carabinieri. I proprietari erano furiosi, ma Ginevra in qualche modo riuscì a cavarsela. E mia suocera arrivò il giorno dopo per fare scenate:

«Non potevate controllarla?! Ha solo ventiquattro anni, è ancora una bambina!»

«Scusi,» non ressi più, «ma io e Marco non siamo pagati per farle da babysitter. Le abbiamo già aiutato. Il resto dipende da lei.»

«Nessuno ha chiesto la tua opinione!» mi sbottò in faccia. «Sto parlando con mio figlio!»

Uscii dalla stanza, ma attraverso il muro sentii le urla. Che avevamo trovato un «lavoro di merda», che non avevamo «protetto» la ragazza.

Pochi giorni dopo, Ginevra si mise in malattia. Mandarono Marco a farle la spesa. Tirarono in ballo anche me: «Vai a pulire, metti in ordine.» Rifiutai. Marco si offese. E io ripensai alle volte in cui, con la febbre a quaranta, avevo cucinato e pulito da sola – senza che nessuno si premurasse di aiutarmi.

Poi arrivarono altre lamentele dai vicini, e i proprietari pretesero che Ginevra sloggiasse. Perse anche il lavoro – si erano lamentati pure lì. Mia suocera venne a prendere la sua «stellina», singhiozzando e maledicendo chiunque. Io restai in silenzio. Perché sapevo che, se avessi aperto bocca, avrei perso il controllo.

Ma due settimane dopo, il miracolo: un’amica di Ginevra la invitò a Firenze. Mia suocera era in ansia, si agitava. Io invece trattenevo a stento un sorriso. Per la prima volta dopo mesi, respiravo.

Ginevra partì. E con lei se ne andò quel caos insopportabile. Tornò la quiete. La pace. E io potei di nuovo essere me stessa – moglie, madre, donna. Che Ginevra vada a tormentare qualcun altro. Basta che non sia noi.

**Lezione di oggi:** A volte, il miglior modo di aiutare è sapere quando smettere. Perché se lasci che qualcuno approfitti della tua gentilezza, presto quella gentilezza si trasformerà in una gabbia.

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La cognata ha trasformato la nostra vita in un inferno privato, finché non sono esplosa.