Qualche giorno dopo il licenziamento, ancora non riuscivo a riprendermi. Era come se il mondo si fosse fermato intorno a me. Niente più camice bianco, niente più odore di disinfettante, niente più bip dei monitorquasi non mi riconoscevo più.
Seduta davanti alla finestra, fissavo il cielo grigio e continuavo a chiedermi: «Forse ho davvero sbagliato?»
Ma nel profondo lo sapevo: non mi pentivo. Era solo lingiustizia che faceva male.
Una mattina, suonarono alla porta.
Sulla soglia cera un uomo elegante, ben vestito. Cappotto impeccabile, viso rasato, sguardo sicuro. In mano, un mazzo di gigli bianchi.
«Lei è Bianca Moretti?» chiese con garbo.
«Sì» risposi, confusa.
«Mi chiamo Marco De Luca. La scorsa settimana ha aiutato qualcuno un senzatetto.»
Il mio cuore iniziò a battere forte.
«Sì come sta?» domandai con cautela. «È sopravvissuto?»
Luomo sorrise e annuì.
«Lei gli ha salvato la vita. Quelluomo era mio padre.»
Rimasi senza parole.
«Suo padre?» sussurrai.
Marco annuì e iniziò a raccontare. Suo padre era un imprenditore di successo, scomparso qualche mese prima. Dopo un grave infarto, aveva perso la memoria e si era ritrovato per strada. La famiglia lo aveva cercato disperatamente, ma senza risultati.
«Se quella mattina non fosse intervenuta» disse piano. «Il suo cuore non ce lavrebbe fatta. Ora è in una clinica privata e sta migliorando. E non fa che parlare di lei: Trovate quellinfermiera che non mi ha abbandonato.»
Non sapevo cosa dire. Un nodo mi serrava la gola.
«Ma io sono stata licenziata» mormorai. «Per via dei regolamenti.»
Marco sorrise.
«Ho già parlato con il primario. Domani mattina la riassumono. Anzi se vuole, le offriamo un posto nella nostra clinica privata. Stipendio, condizioniqualsiasi cosa desideri. Basta che lo dica.»
Le lacrime mi scesero da sole. Tutto ciò che credevo perduto, allimprovviso, si era trasformato in un dono.
Il giorno dopo, tornai in ospedale. I corridoi familiari, i sussurri, gli sguardi curiosi. Questa volta, il volto del primario non era freddo.
«Infermiera Moretti» disse, esitante. «Credo di aver agito con troppa fretta. Mi scusi.»
«Nessun rancore» risposi dolcemente. «Sono solo felice che tutto sia finito bene.»
Una settimana dopo, già lavoravo nella clinica della famiglia De Luca. Un edificio luminoso, accogliente, dove contavano più le persone che i protocolli. Fu lì che riscoprii il senso del mio lavoro.
Un pomeriggio, lo vidi di nuovo. Camicia pulita, sguardo sereno. A malapena lo riconobbi.
«Lei mi ha salvato la vita» disse, stringendomi la mano. «E non lho mai ringraziata.»
«Non cè bisogno» sorrisi. «Limportante è che stia bene.»
Tirò fuori una busta dalla tasca.
«Non è un compenso. Solo un grazie, un piccolo simbolo di quello che ha fatto per me. Voglio che sappia che la gentilezza non viene mai dimenticata, anche se il mondo a volte è ingiusto.»
Nella busta cera una lettera e un assegnouna cifra importante. Ma le poche righe che lessi valevano più dei soldi:
*«A volte infrangere le regole significa salvare il cuore di qualcuno. Grazie per essere stata non solo uninfermiera, ma una persona.»*
Quella lettera la conservo ancora oggi.
Passarono mesi. Tornai a sorridere, grata ogni giorno.
Un pomeriggio, attraversando il parco, vidi una giovane donna chinarsi su un uomo a terra, pallido, che respirava a fatica.
Mi avvicinai.
«Posso aiutare? Sono uninfermiera» dissi decisa.
La donna annuì tremante, e insieme intervenimmo. Mentre il respiro delluomo si calmava, un calore strano mi avvolse il petto






