23 febbraio non è solo festa per gli uomini. Per me, Maddalena Tità, è il giorno in cui compirò trentanni. Una data rotonda, un vero e proprio giubileo.
Il pranzo di famiglia si accenderà con gli ospiti provenienti da ogni angolo dItalia: la zia Lucia, che vive a Milano, la cugina Vincenza di Roma con il suo marito informatico di successo e i due gemellini perfetti, lo zio Vittorio di Perugia un tuttofare che ha costruito la sua casa quasi da solo.
Cosa potrà offrire loro Maddalena?
Né marito, né figli, né un lavoro ben pagato. Vivo ancora nel monolocale cascina ereditato da mia nonna, con la vecchia credenza di legno che da bambina custodiva le foto di famiglia. Si dice che il mondo sia cambiato, ma tutte le mie amiche sono ormai sposate. Anastasia ha due bambine, Daria ha un figlio che va allasilo, persino la ribelle Katia, che giurava di non volersi mai sposare, ora è felice con il suo Vito.
Io, invece, mi limito al lavoro alla biblioteca comunale Giovanni Verga, dove conosco ogni scaffale, e a una vita tranquilla, quasi prevedibile.
Il 23 febbraio è stato anche il giorno della Festa del Papà, quindi tutti intorno celebravano gli uomini. Nella nostra famiglia, però, le date rotonde si festeggiano sempre, così non potevo sottrarmi.
«Non voglio caderci di brutto con la faccia nella neve», pensavo, osservando la tormenta fuori dalla finestra. «Non devo far piangere di nuovo la zia Lucia, né far sorridere forzatamente Vincenza».
Essendo una ragazza timida al punto da tremare al pensiero di una chiacchierata civetta con uno sconosciuto, ho scartato subito lidea di un incontro dal vivo. Rimaneva solo Internet. Un mese sui siti di incontri mi ha portato tanti messaggi, ma appena compariva la parola serietà o famiglia le conversazioni si gelavano. Lultimo, con un ragazzo chiamato Arturo, è finito ieri: dopo il mio cauto «Perché cerchi una relazione?», ha risposto «Solo per svago, vediamo», e poi è sparito.
Quel inverno il freddo era pungente, 30°C, e il vento ululava tanto fuori quanto dentro di me. Mi trovavo sul divano, avvolta nel coperta di mio nonno, a scorrere senza meta i feed dei social.
Un colpo alla porta mi ha fatto sobbalzare. Erano circa otto di sera, indossavo il pigiama con le civette e lidea di aprire mi provocava una fastidiosa resistenza.
Il campanello è suonato di nuovo, insistente.
«Che altro è arrivato?», borbottai avvicinandomi alla porta.
«Avevate ordinato una pizza?», si sentì una voce giovanile, leggermente raffreddata, dallaltra parte.
«Che pizza? Non ho ordinato nulla!», mi insospettai.
«Ma come non lavete ordinata?», rispose luomo confuso, «Via Roma 29, cognome Tità?»
Lindirizzo e il cognome erano esatti. Ho lanciato uno sguardo rapido al riflesso nello specchio dingresso: capelli spettinati, naso arrossato dal tè, pigiama. «Non si può», mi sussurrò lanimo. Mi infilai di corsa una tuta sportiva, respirai a fondo e aprii.
Sul gradino cera il fattorino, un trentacinquenne coperto di neve, con due scatole fumanti e un thermos a tracolla. Il viso era segnato dal vento, ma gli occhi rimanevano vivaci e stanchi. La giacca era troppo leggera per quel gelo.
«Allora non è per voi?», chiese, con una punta di irritazione che mi colpì. «Scusate il disturbo».
Mentre si girava per andarsene, unondata di compassione mi travolse. Il freddo lo avvolgeva, e ora doveva tornare indietro a sistemare il reso, perdendo tempo e forse soldi.
«Aspettate!», balbettai. «Vi offro una tazza di tè, così vi riscaldate un po?»
Alzò un sopracciglio sorpreso, poi sorrise, ampio e quasi domestico.
«Accetto volentieri. E, se volete, tenete la pizza come compenso per il fastidio. Abbiamo una Margherita e una Quattro Stagioni, scegliete».
Cinque minuti dopo eravamo seduti nella mia piccola cucina. Il bollitore cantava, tirai fuori un vasetto di marmellata di lamponi fatta in casa e dei cioccolatini dorati per gli ospiti. Laria profumava di pane, formaggio e di quel calore umano inatteso.
«Mi chiamo Costante», si presentò, scaldando le mani sul bicchiere. «Sono il proprietario della piccola panetteriacaffetteria Il Girello. Oggi il mio fattorino è ammalato e, per caso, ho troppe consegne. Non voglio deludere i clienti».
Parlò semplice, senza fronzoli. Raccontò di aver divorziato tre anni fa, di non avere figli, di vivere in un monolocale simile al mio ma in un quartiere diverso. Ama pescare destate e suonare la chitarra per sé. Nei suoi racconti traspariva una solidità terrena.
Colpita dalla sua sincerità e dalla luce soffusa della lampada da cucina, mi aprii più del solito. Gli spiegai del prossimo giubileo, della famiglia che sarebbe arrivata, del senso di essere rimasta indietro sul treno chiamato vita normale.
Costante ascoltava, annuendo, senza interrompere. Quando feci una pausa, sorseggiando timidamente il tè, lui mi chiese:
«Sentì, ti sposeresti per me?»
Ingoiai il colpo.
«Cosa? È un ringraziamento per lospitalità?», balbettai, sentendo il volto arrossare.
«No», scosse la testa, serio. «Mi piaci subito. Sei vera. Ti siedi qui a preoccuparsi per un fattorino gelato, a prendere la tua marmellata. Hai gli occhi onesti. La mia ex mi definiva poco promettente, ma tu sembri una persona con cui potrei semplicemente vivere bene».
Mi mostrò la sua vita senza fronzoli:
«Guardo alla panetteria, il guadagno è modesto ma stabile. Ho un furgone per le consegne e per la pesca, una vecchia ma robusta casa di campagna a Castelluccio con sauna. Vorrei due figli, un maschio e una femmina, non subito però. Se vuoi, potremmo vendere i nostri monolocali e cercare qualcosa di più grande. Che ne dici? Vuoi diventare mio marito? O è troppo improvviso?»
Rimasi immobile, il pensiero correva: «È pazzo. È uno scherzo. È disperazione. È salvezza». Improvvisamente vidi non solo Costante, ma la vita che descriveva: sauna a Castelluccio, odore di pane appena sfornato, risate di bambini che ormai quasi non osavo più desiderare.
Guardai le sue mani, robuste, segnate da tagli di pasta o di attrezzi, e il suo volto, aperto e sereno. Capii che, se avessi detto no, quelluomo se ne sarebbe andato subito.
«Allora accetto», dissi piano ma con decisione. Dentro di me qualcosa scattò, come una molla che si libera.
Costante rise, sollevato.
«Perfetto! Allora, Elena Tità, prepara il passaporto. Domani, dopo il lavoro, passo a prenderti; andremo al comune a presentare la domanda. Ho unamica lì che può accelerare le pratiche. Magari riusciremo a farcela prima del tuo giubileo».
Scopriamo che la pizza era per la vicina Nadia Tità, una parente con lo stesso cognome, al piano di sopra. Il giorno dopo Costante le consegnò gli ordini con scuse e una scatola di croissant freschi. Nadia, sbalordita, esclamò: «Maddalena, sei una forza!»
Il mio compleanno non era mai stato così memorabile. Quel pomeriggio trascorso al Girello, tra cannella e dolci appena sfornati, è rimasto impresso nella memoria di tutti.
La famiglia, vedendo Costante tranquillo e affidabile, rimase perplessa ma approvante. La zia Lucia asciugò una lacrima di tenerezza, e la cugina Vincenza, osservando Costante sistemare una ciocca di capelli ribelle, sussurrò: «Sa, è come il mio capo: si prende solo i suoi scadenze».
Io, ascoltando i brindisi in mio onore, sorridevo pensando che la vera difesa contro le tempeste della vita non è larmatura scintillante del successo, ma una spalla maschile solida, comparsa allimprovviso sulla soglia. La mia avventura, nata dalla disperazione, mi ha condotta non a una facciata, ma a una casa.Una casa vera.






