La felicità a portata di mano

*Fortuna in mano*

Gianna si scrutava allo specchio: un viso allungato, un naso pronunciato e affilato, labbra sottili e occhi freddi, di un grigio chiaro. Era nata così, diversa dalle altre. Solo i capelli le piacevano – neri, folti. Li portava con una lunga frangia che le scendeva sugli occhi.

«Sei uguale a tuo padre. Era un bell’uomo, altrimenti non mi sarei innamorata. Ha sangue sardo», la rassicurava la madre. «Crescerai e capirai che la tua bellezza è raffinata. Non tutti la vedranno, certo.»

Del padre, Gianna non ricordava nulla. Se n’era andato prima che lei compisse due anni. Ricordava invece lo zio Silvio – un uomo allegro, con la faccia sempre arrossata, che la lanciava in aria ridendo. Arrivava sempre con cioccolatini, dolcetti o qualche giocattolo economico. Da bambina, amava arrampicarsi sulle sue ginocchia e respirare il suo profumo. La madre diceva che era l’odore di sigari pregiati e brandy. Con lui, sembrava felice. Ancora oggi, Gianna ricordava quell’odore e lo associava all’essenza stessa della virilità.

Un giorno, più grande, chiese alla madre perché non si fossero mai sposati.

«Era già sposato. Aveva un figlio», rispose lei, e nella voce c’era ancora una malinconia antica.

Poi arrivò lo zio Franco. Ma fu Gianna stessa a mandarlo via. Lui puzzava di calzini sporchi e benzina. Era piccolo, mingherlino, con il naso a patata e il labbro inferiore cadente, che gli dava un’aria sempre assonnata. Raramente sorrideva. Portava sempre una bottiglia di vino o grappa e una tavoletta di cioccolato.

«Che cena è senza vino? Per rilassarsi dopo una giornata di lavoro», diceva, ignorando lo sguardo severo di Gianna, ormai dodicenne.

All’inizio, la madre beveva poco. Poi ne diventò dipendente. Cominciò a comprarselo da sola. Se Franco non veniva, beveva da sola e piangeva in cucina. Gianna non era più una bambina: capiva che, così, la madre sarebbe finita male.

Un giorno, mentre la madre era fuori, si sedette accanto a Franco e gli chiese senza preamboli:

«Zio Franco, è sposato?»

Lui sussultò, battendo le palpebre.

«Come lo sai?»

«Vada subito da sua moglie», ordinò Gianna, decisa.

«Ma chi credi di essere, mocciosa? Sono venuto per tua madre, non per te!»

«E allora anche per me. E a me non piace. Se ne vada, o dirò tutto a sua moglie.»

Non si sa se avesse paura, ma Franco sparì. La madre pianse, bevve, lo aspettò.

«Basta così. Se non smetti, me ne vado di casa, hai capito?» la minacciò Gianna, afferrando la bottiglia e svuotandola nel lavandino.

La madre singhiozzò, accusò la figlia di averle rovinato la vita. Ma smise di bere. Una volta, era stata una bella donna, dai capelli fulvi. Ma con gli anni, la bellezza si era spenta, i capelli erano diradati, ingrigiti. Gli uomini smisero di farsi vivi, e Gianna ne fu felice.

Dopo il liceo, Gianna si iscrisse all’università, alla facoltà di pedagogia.

«Con quel tuo aspetto, è la scelta giusta», commentò la madre, con cattiveria.

Conobbe Francesco alla festa universitaria. Lui si mostrò subito gentile, premuroso. Con lui era semplice, piacevole, sicuro. Non aveva fretta, non cercava di baciarla subito. Gianna si abituò alla sua presenza costante.

Al secondo anno, timido, le chiese di sposarlo. Lei rispose che era troppo presto, erano ancora studenti, come avrebbero fatto a vivere?

«Stai sbagliando. Con quel tuo carattere e aspetto, non troverai facilmente un marito. Accetta, sennò resterai zitella», sospirava la madre. «È tranquillo, non beve, viene da una buona famiglia… Cosa vuoi di più? Non fare la stupida.»

E Gianna accettò. Dopo un matrimonio modesto, andarono a vivere da Francesco, in un piccolo appartamento con una cucina minuscola, un ingresso stretto e mura sottili. Il padre di lui era morto due anni prima d’infarto, e Francesco non voleva lasciare la madre sola.

Di notte, Gianna non riusciva a rilassarsi, sapendo che proprio dietro la parete dormiva la suocera, che poteva sentire tutto. Così facevano tutto in fretta, in silenzio. In quelle condizioni, non poteva nemmeno pensare a un figlio. Al mattino, abbassava gli occhi imbarazzata.

La suocera regnava in cucina, e a tutti andava bene. Quando Gianna cercava di aiutare, la allontanava dicendo che nello spazio angusto si era d’intralcio, che avrebbe avuto tutta la vita per cucinare, e che per ora era felice di occuparsi di suo figlio e della nuora.

I soldi scarseggiavano; con due borse di studio e la pensione della suocera non si viveva. Francesco trovò lavoro come guardiano notturno in un magazzino, due notti sì e due no. A Gianna andava bene. Sognava che, dopo la laurea, sarebbero andati a Milano per cercare fortuna. Ma Francesco si rifiutò. Non voleva lasciare la madre sola.

Anche quando lei andava dalla sorella per qualche giorno, non cambiavano le loro abitudini: fretta e silenzio.

«Prendiamo un mutuo per un appartamento», chiedeva Gianna. «Puoi venire ogni giorno da tua madre, ma vivremmo da soli.»

«E poi? Dovremmo dare tutto lo stipendio alla banca. E vivere come? Aspettiamo, mettiamo da parte qualcosa…» ripeteva Francesco.

Una volta, la scuola dove insegnava mandò Gianna a una conferenza a Firenze per tre giorni. Era felice di staccare dalle lezioni, dal marito, dall’appartamento stretto… In sala, gli uomini erano pochi, e le donne li osservavano con attenzione. Spiccava fra tutti il bel Leonardo Rossi. Quando entrava, le colleghe si raddrizzavano, si sistemavano i capelli, sorridevano mostrando i rossetti. Gianna, la più giovane, rideva delle loro manovre per attirare la sua attenzione.

Una mattina, stanca di un discorso noioso, uscì dalla sala e si sedette in attesa della pausa. Leonardo la raggiunse.

«Una noia mortale, vero? Peggio ancora dopo. Perché non visitiamo la città? Altrimenti tornerai senza aver visto nulla.»

E Gianna accettò. A inizio aprile, il freddo era ancora pungente. L’Arno scorreva gonfio, e la pioggia intermittente rendeva tutto grigio.

«Il tempo a Firenze è come l’umore di una donna», disse Leonardo, con una frase fatta.

Quel giorno non tornarono alla conferenza. Con la sua macchina, girarono per la città. E lì, in un vicolo buio, accadde tutto. Era stretto, scomodo, caldo. Ma Gianna era abituata alla scomodità. Passò la notte da lui.

Il mattino dopo, entrarono insieme in sala, in netto ritardo. «Davvero non ha trovato di meglio di quella smunta con il naso adunco?» sembravano dire gli sguardi delle colleghe.

Finita la conferenza, tutti tornarono alle loro città, ma Gianna rimase qualche giorno in più con Leonardo. Chiamò a casa, disse di aver preso l’influenza, che sarebbe tornata appena guarita. Fingette anche di tossire.

«Lascia stare quell’inferno. CE quando tornò a casa, con il cuore gonfio di rimpianto e le mani vuote, capì che la felicità non era una caccia, ma un seme che cresceva piano, accanto a chi la amava senza chiedere nulla.

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