La figlia imbarazzante

**La figlia scomoda**

— *Martina, hai portato a casa di nuovo quella robaccia di stoffa?* — brontolò la madre accogliendola sulla soglia.

— *Non è robaccia, mamma. Sono pezzi di velluto. Li avrebbero buttati comunque…*

— *E allora che li buttassero! Quante volte devo dirtelo? Cucire non è un lavoro, è un passatempo! Meglio fare il doppio turno, almeno mettiamo da parte per la lavatrice.*

Martina tacque. Si tolse la giacca, entrò in camera. La madre continuava a borbottare in cucina, le sorelle gemelle, Gioia e Stella, ridacchiavano fissando i telefoni.

— *Eccola che gioca con i suoi stracci!* — gridò Stella.

— *La sposa di Martina Versa-Lenti!* — aggiunse Gioia, soffocando una risata.

Martina si sedette vicino alla finestra, tirò fuori dalla borsa un pezzo di velluto blu e un ritaglio di tulle dorato. Lo accarezzò con le dita: la stoffa era morbida come l’acqua. Nella sua mente, il vestito già esisteva: fluido, con le spalle scoperte e un orlo asimmetrico. Vero. Magico.

Di giorno lavorava in una fabbrica di mobili. Ufficialmente, come assemblatrice. Ufficiosamente, come *”la strana del posto”*: sempre con gli spilli in tasca, le matite dietro l’orecchio e un grembiule decorato con una spilla fatta a mano.

— *Marti, hai fatto di nuovo la spilla da sola?* — chiese un giorno Vera, la caporeparto.

— *Sì, con una ghiera di plastica e delle perline.*

— *Hai mani d’oro. Peccato che nessuno le apprezzi.*

— *Non importa. Io so cosa voglio.*

Martina lavorava in fretta. Dopo il turno, raggiungeva l’amica Sofia, che lavorava in uno studio fotografico al centro commerciale.

— *Marti, sei proprio in tempo! Ho già sistemato le luci.*

— *Il vestito è pronto.*

Addosso, quello stesso con la gonna di velluto blu. L’orlo fluiva, le spalle erano scoperte, in vita c’era una cintura ricamata a mano. Martina non era solo bella: sembrava venire da un altro mondo.

Sofia scattò le foto, sussurrando: *”Sei come una fata!”* Poi le pubblicò sul suo blog.

— *Che hashtag metto?*

— *#principessadellafabbrica* — scherzò Martina. *”Tanto l’ho cucito in officina.”*

Due giorni dopo, Sofia irruppe in fabbrica.

— *Marti! Incredibile! Un designer di Milano ha scritto! Gli è piaciuto il tuo vestito e vuole contattarti!*

— *Cosa? Davvero?*

— *Ecco!* — Sofia le mostrò lo schermo. *”Si chiama Matteo Valentini. Ha uno showroom, lavora con le star. Dice che hai uno stile fresco e chiede il tuo contatto.”*

A Martina girava la testa. Il cuore batteva forte. Era… uno scherzo? Ma no. Il messaggio era vero.

— *Ma sei impazzita?* — la madre era sulla porta quando Martina parlò dell’offerta. *”A Milano? Ti ruberanno! Tornerai con una valigia di debiti, ecco tutto!”*

— *Mamma, è una possibilità vera. Ho talento, voglio provarci.*

— *Tu hai delle responsabilità! Non sei sola! Chi ci aiuterà? Sei la maggiore!*

— *Ho ventisette anni, mamma. Ho il diritto di vivere la mia vita.*

Le sorelle sbuffarono, il padre tacque. Poi borbottò:

— *I sogni non sono minestra. Non ci campi.*

Martina andò in camera. Il cuore le doleva. Aveva voglia di piangere. Ma guardò gli schizzi, la macchina da cucire, i ritagli di stoffa. E capì: sarebbe partita.

Matteo Valentini la incontrò alla stazione, con un maglione a coste e delle sneakers.

— *Martina? Finalmente. Andiamo, abbiamo un sacco di lavoro.*

Il suo showroom era all’ultimo piano di un palazzo antico. Uno spazio luminoso, manichini, stoffe, uno specchio a figura intera. Martina si sentì come in un film.

— *Voglio che realizzi una collezione capsule. Cinque o sei look. Hai un senso per la stoffa. È raro. E gusto. Il resto lo sistemiamo insieme.*

— *Sei sicuro?*

— *Più di te.*

Martina annuì. Il mattino dopo iniziò a cucire. Viveva in una stanza accanto alla sartoria, mangiava panini e dormiva poco. Le stoffe vibravano sotto le sue dita. I vestiti nascevano — leggeri come il vento, audaci come un sogno.

Matteo la guardava, sorridendo:

— *Sai, non sei solo una designer. Sei una poetessa della stoffa.*

A un mese di distanza, ci fu una sfilata privata. Editori, blogger, qualche star. Martina tremava dietro le quinte, ma quando il primo modello uscì, la platea si fermò.

I vestiti erano vivi. Niente di pesante, niente falsità urlate. Solo luce soffusa, linee pulite e il calore delle mani in ogni punto.

Dopo la sfilata, una redattrice di una rivista di moda le si avvicinò.

— *È… un miracolo. Chi sei?*

— *Io? Solo Martina, quella della fabbrica.*

— *No. Sei una scoperta.*

Tornò a casa due mesi dopo, con un contratto di stage in una maison e qualche articolo su di lei.

La madre la accolse in silenzio. Poi disse:

— *Io e Stella pensavamo che magari potessi trovare posto nell’officina vicina. Tutto questo che fai a Milano… ma qua c’è il lavoro vero.*

— *Mamma, non torno. Sono venuta a prendere la macchina da cucire. I miei schizzi. E per salutarvi.*

— *Quindi ci abbandoni?!*

— *Non vi abbandono. Vado solo avanti. Voglio vivere, non sopravvivere.*

Le sorelle tacevano. Il padre guardava a terra.

— *Martina…* — disse improvvisamente. *”Scusa. Avevamo paura che ti perdessi. Invece… ti sei ritrovata.”*

Lo abbracciò. Poi prese la macchina da cucire, il quaderno degli schizzi e uscì. La porta si chiuse, non con rabbia, ma con il silenzio della comprensione.

Quella sera era di nuovo a Milano. Una tazza di tè tra le mani. Matteo rideva del suo racconto sulla *”sposa di Martina Versa-Lenti”*.

— *Se solo potessero vederti ora!* — sghignazzò.

— *Forse un giorno…*

— *Ma intanto, sei chi sei sempre stata. Una principessa. Solo che ora… è vero.*

Martina sorrise. Sapeva: era solo l’inizio. Ma era già successo l’importante.

Era uscita dall’officina… e aveva preso fuoco. E non si sarebbe più spenta.

Sei mesi dopo, *Martina* — ora *Martina Armani* — teneva un workshop in una scuola di design milanese. Di fronte a lei, venti ragazze, alcune con gli occhi lucidi, altre stanche e diffidenti.

— *Ricordate* — disse — *la moda non è solo vestiti. È come dite al mondo: “Io sono così”. E se vi dicono che non siete adatte… lo siete. Solo che non lo vedono.*

Dopo la lezione, una ragazza con i capelli blu le si avvicinò.

— *Martina, grazie. Pensavo che qui non fosse il mio posto. Non ho soldi,— *Basta una macchina vecchia e un sogno*, rispose Martina, *perché a volte anche i fili più fragili tessono il destino più bello.*

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