La lampada quasi distrugge la famiglia
“Nonna, chi di voi ha rotto la mia lampada? È il ricordo di Nonno!” gridò Emilia Sbarbaro, battendo la mano sul tavolo di legno massello nel salotto della vecchia casa degli Sbarbaro, nella periferia di Roma. La polvere si sollevò dalla tovaglia consumata, ricamata con margherite. La casa, costruita negli anni Trenta, odorava di legno vecchio, naftalina, minestrone appena fatto e un lieve sentore di umido proveniente dalla cantina. La lampada antica, con la base in bronzo a forma di tralci di vite e il paralume verde, che Emilia custodiva come un tesoro in memoria del defunto marito Giovanni, giaceva sul pavimento in pietra serena, il paralume storto e il gambo rotto, mostrando i fili elettrici. I suoi capelli grigi erano stretti in una crocchia, il vestito colorato con motivi di fiori ondeggiava mentre gli occhiali di tartaruga si appannavano per la rabbia.
Laura, la nipote quindicenne, saltò giù dal divano sformato, i suoi capelli scuri spettinati e la maglietta nera con i gatti sollevata, mostrando la cintura dei jeans. Puntò il dito contro il fratello minore.
“Nonna, non sono stata io!” esclamò, le scarpe da ginnastica scricchiolando sul pavimento. “È stato Matteo, lui fa cadere tutto, ieri stava saltellando con la palla!”
Matteo, dodicenne con una felpa blu stropicciata, posò il tablet dove stava giocando a un videogioco di corse. I suoi capelli rossi erano arruffati e gli occhi si spalancarono per lo sdegno.
“Io?! Laura, stai mentendo!” urlò, saltando su. “Nonna, davvero, non l’ho toccata! È stata Laura che ieri ballava per TikTok, saltando come una capra!”
Marco, figlio di Emilia, entrò in salotto con la giacca da lavoro impregnata di olio motore e metallo. Era operaio in una fabbrica di macchinari, la barba corta lucida di sudore e le occhiaie profonde per i turni notturni.
“Mamma, smettila di urlare, stai facendo tremare la casa,” disse, appoggiando la giacca sulla gruccia scricchiolante. “È solo una lampada vecchia! Perché farne un dramma?”
Sofia, moglie di Marco e madre dei ragazzi, stava apparecchiando la tavola, i capelli biondi sfuggiti alla coda disordinata, il grembiule macchiato di sugo e farina. Il viso era stanco dopo aver cucinato e pulito.
“Marco, non ricominciare,” disse con voce tesa. “Non è spazzatura, è la lampada di mamma, le ricorda Giovanni. Laura, Matteo, ditemi la verità e sistemiamo la cosa!”
Quella sera, la discussione si riaccese. Il salotto, illuminato da una lampadina fioca con la vernice scrostata, rimbombava di voci. Emilia sedeva sulla sua poltrona sbiadita, rammendando un calzino di lana, l’ago che sfrecciava tra le dita. Marco beveva il caffè da una tazza scheggiata con scritto “Miglior operaio”, il giornale con le parole crociate accartocciato sul tavolo. Sofia lavava i piatti in cucina, il profumo del sugo e del basilico riempiva l’aria. Laura sfogliava un libro di biologia, le cuffie appese al collo, mentre Matteo costruiva una torre di Lego che crollava subito con un tonfo.
“Laura, ti ho visto ballare ieri nel salotto!” disse Emilia, gli occhiali sul naso. “La lampada non è caduta da sola!”
Laura sbatté il libro sul divano, le guance rosse.
“Nonna, ho ballato, ma non l’ho toccata! È stato Matteo che giocava a calcio stamattina, l’ho sentito colpire la palla contro il muro!”
Matteo saltò su, i Lego sparpagliati ovunque.
“Io?! Laura, lo fai apposta! Ero nella mia camera a giocare! Lei mente, nonna!”
Marco sbatté la tazza, il caffè schizzò sulla tovaglia.
“Mamma, è un lampadario vecchio, perché ti agiti così? Lavoro dodici ore al giorno e voi litigate per robaccia!”
Sofia entrò dalla cucina, asciugandosi le mani sul grembiule.
“Marco, non è robaccia, è il ricordo di Giovanni!” disse, gli occhi lucidi. “E non incolpare i ragazzi, sono solo bambini!”
Emilia si alzò in piedi, l’ago le cadde di mano pungendole un dito.
“Il ricordo? Sofia, questa lampada è tutto ciò che mi resta di Giovanni!” gridò. “Abbiamo letto le sue lettere sotto quella luce, pianificato il nostro futuro! E voi… mi trattate come se fossi invisibile nella mia stessa casa!”
Laura scattò in piedi, lo zaino che cadeva a terra.
“Nonna, non volevo rompere niente! Ma tu urli sempre come se fossimo nemici! Basta, me ne vado!”
Corse fuori dalla porta sbattendola, gli scarponcini che battevano sui gradini. Matteo gridò, il tablet che gli cadeva dalle mani rompendosi.
“Laura!”
Sofia si precipitò verso la porta. “Laura, torna qui subito!”
Marco impallidì. “Dannazione,” borbottò, afferrando la giacca. “Mamma, ho sbagliato. Non dovevo chiamarla robaccia. Vado a cercarla.”
Emilia cadde sulla poltrona, la voce fioca.
“Portala a casa, Marco. Mi sono lasciata trasportare.”
La lampada sul pavimento era diventata il simbolo della loro rottura, e la fuga di Laura il segnale che la famiglia si stava sgretolando.
Il giorno dopo, Sofia cercò Laura nei cortili vicini, dove l’odore dell’erba bagnata e dei barbecue si mescolava ai fiori di tiglio. Bussò dalla vicina, zia Rosina, che innaffiava i gerani sul portico.
“Zia, hai visto Laura?” chiese Sofia. “Se n’è andata ieri dopo una lite per la lampada di Emilia.”
Zia Rosina scosse la testa, gli orecchini che tintinnavano.
“Emilia ha un cuore grande, ma è dura come un’insegnante. Parla con lei. E con Laura. È una brava ragazza, solo confusa.”
Intanto, Matteo trovò Laura su una panchina nel parco, con le lacrime che le rigavano il viso mentre lottava con il telefono.
“Laura, perché sei scappata?” chiese, sedendosi accanto a lei. “Nonna non è arrabbiata, è solo triste. Torna a casa, dai.”
Laura si asciugLaura annuì, stringendosi al fratello, e insieme tornarono a casa, dove la lampada, ora riparata, brillava di nuovo, unendo la famiglia sotto la sua luce calda e il ricordo di Giovanni.