La madre ottiene la libertà condizionale dopo aver scontato la pena al posto del figlio, che ha venduto la casa negandole persino l’ingresso.

**Diario di Vera**

Oggi mi hanno rilasciata. Cinque anni in prigione per un crimine che non ho commesso, ma lho fatto per mio figlio. E ora? Lui ha venduto la nostra casa a Castelbuono, quella che suo padre ci aveva lasciato, e non mi ha nemmeno permesso di varcare la soglia.

Mi sono fermata davanti al cancello di legno, appoggiandomi alla staccionata di ferro. Ero corsa dallautobus come una pazza, il cuore che mi scoppiava nel petto. Dal camino usciva un filo di fumo azzurro, segno che qualcuno stava cucinando. Mi sono asciugata il sudore dalla fronte, nonostante il freddo pungente di novembre, poi ho spinto il cancello con decisione.

Il ripostiglio era stato riparato. Mio figlio, Igino, non mi scriveva più, ma almeno aveva mantenuto la promessa: la casa era ancora in piedi. Ho salito i gradini del portico con il cuore in gola, pronta ad abbracciare il mio piccolo Igino.

Ma la porta si è aperta su uno sconosciuto, con un canovaccio sporco appeso alla spalla.
“Cerca qualcuno?” mi ha chiesto, scrutandomi con sospetto.

Mi sono bloccata. “Dovè Igino?”

Luomo si è grattato la barba ispida, fissandomi come se fossi unestranea. Mi sono sentita ancora più vecchia, con la mia giacca imbottita, gli stivali consumati e la borsa di tela macchiata. Ma cosa potevo fare? Quando mi hanno portata via, era estate; ora è tardo autunno, e indossavo ancora i vestiti del carcere.

“Igino è mio figlio. Dovè? Sta bene?”

Luomo ha scrollato le spalle. “Chissà. Dovreste saperlo voi.” Stava per chiudermi la porta in faccia, poi si è fermato. “Igino Mancini?”

Ho annuito. Lui ha sospirato. “Mi ha venduto la casa quattro anni fa. Se vuole entrare”

“No, no!” Ho agitato le mani, quasi cadendo dai gradini. “Sa dove posso trovarlo?”

Ha scosso la testa. Sono uscita, il cuore pesante. Avrei potuto andare dallamica Livia, ma quella non sapeva tenere la bocca chiusa: avrebbe riempito il paese di pettegolezzi. Eppure, dentro di me, sapevo che qualcosa di brutto era successo a Igino.

Camminavo lentamente verso la fermata, perdendomi in pensieri oscuri. Cosera successo? Igino era sempre stato così ingenuo Quattro anni fa, si era fidato di un “amico” e si era ritrovato coinvolto in una truffa. Se non mi fossi presa la colpa al posto suo, avrebbe passato anni dietro le sbarre. A me, ormai anziana, avevano dato solo cinque anni. Mi hanno rilasciata in anticipo per buona condotta, perfino pagandomi il biglietto dellautobus.

Seduta sulla panchina fredda, ho mormorato: “Dove sei, piccolino?”

Mi sono asciugata le lacrime con un fazzoletto sgualcito. Il cuore mi aveva fatto male quando, tre anni fa, le sue lettere erano cessate. Ora i miei peggiori sospetti si erano avverati: aveva venduto persino la casa.

Allimprovviso, unauto nera si è fermata davanti a me. Era luomo della casa. Mi ha teso un foglietto: “Ho trovato questo indirizzo nei documenti. Se vuole, la accompagno in città.”

Lho preso come fosse un salvagente. “Grazie, ragazzo mio, ma ce la faccio da sola.” Con un sorriso tremulo, sono salita sullautobus che arrivava.

Mezzora di strade sconnesse e ansia, e finalmente ero davanti a un palazzo fatiscente. Ho suonato il citofono più volte, trattenendo il respiro. Temevo la peggior notizia.

Quando la porta si è aperta, ho avuto un attimo di gioia: era lui, Igino, un po sciatto, un po ubriaco, ma vivo! Ho voluto abbracciarlo, ma lui si è tirato indietro. “Come hai fatto a trovarmi?”

Sconcertata, non ho saputo rispondere. Lui mi ha spinta verso le scale: “Mi dispiace, mamma, ma non puoi entrare. La mia donna odia gli ex-carcerati. Sistemati da sola, non ho un soldo.”

Ho tentato di parlare del ricavato della casa, ma la porta si è chiusa come un colpo al cuore. Non ho pianto. Sono scesa a testa bassa. Livia aveva ragione: avevo cresciuto un farabutto.

Tornata al paese, la sfortuna ha continuato: Livia era morta sei mesi prima, e i suoi nipoti mi hanno lasciata fuori sotto la pioggia.

Proprio allora, luomo della casa è tornato con lauto. “Sali, sei fradicia!”

Ho rifiutato, ma lui mi ha quasi caricata a forza. Abbiamo parlato. Gli ho raccontato tutto, tranne la visita a Igino. Andrea, così si chiamava, mi ha offerto di restare con lui. Così sono tornata a casa mia, che ora era sua.

Andrea lavorava dalla mattina alla sera nella sua segheria. Io mi occupavo della casa, cucinavo, pulivo. Era un orfano, e sotto le mie cure, sembrava aver trovato una famiglia. Ogni volta che accennavo allidea di andarmene, mi rispondeva: “Dove andresti? Qui sei a casa tua!”

Col tempo, il mio cuore si è sciolto. Figlio di sangue non si sostituisce, ma Andrea era buono come pochi. Un giorno, mentre gli portavo il pranzo in segheria, ho cacciato via un uomo dallufficio. Andrea ha riso: “Vera, sei un generale! E se si offende?”

Ho aggrottato le sopracciglia. “Vuoi assumerlo? Guardalo in faccia: è un ladro. Il carcere mi ha insegnato a riconoscerli.”

Lui ha scosso la testa. “Mamma, ha un bel curriculum.”

Ma avevo ragione: un mese dopo, luomo rubò un intero camion di legname e sparì. Da allora, Andrea mi ha voluta accanto nei colloqui. Io osservavo, scrivevo i miei giudizi: “ubriacone”, “ladro”, “fannullone”.

Poi un giorno, tra i candidati, ho visto lui: Igino. Mi sono bloccata, le mani mi tremavano. Andrea ha letto il mio biglietto ad alta voce:

“Tipo maledetto.” Poi ha cacciato Igino con un gesto. “Fuori. Mi fido del giudizio di mamma.”

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