«Dove vai di nuovo?» chiesi, fermandomi mentre allacciavo la giacca alla porta. Giulia, con lo sguardo fisso sul cellulare, sollevò gli occhi. Non mi voltò nemmeno a guardare.
«Vado da Cinzia. Deve aiutarla con una cosa.»
Giulia alzò gli occhi al cielo e posò il telefono sul tavolino.
«Non è già la terza volta questa settimana?»
Strinsi i denti e agitai la mano.
«Giulia, è che il lavandino di Cinzia perde, devo dare unocchiata. Lei non ce la fa da sola.»
Una fastidiosa punta di irritazione mi salì dallo stomaco, si diffuse in tutto il corpo come unondata di caldo.
«Falli chiamare un idraulico», dissi, alzandomi dal divano. «Ci sono professionisti per questo.»
«È caro», obiettò Giulia, chiudendo la zip della giacca. «Io lo faccio gratis, così risparmiamo.»
«Marco, sei sempre lì», la rimproverai, avvicinandomi. «Ogni santo giorno! Una cosa o laltra. Quando finirà tutto?»
Ero già alla porta.
«Giulia, Cinzia è sola con i bambini. Non posso semplicemente lasciarla. Capisci?»
Le parole uscivano quasi senza pensarci.
«E tu potresti abbandonarmi? Non sei quasi mai a casa!»
«Non esagerare. Ne parleremo quando torno», risposi, chiudendo la porta.
Il silenzio si riempì di un eco che mi schiacciava le orecchie. Giulia andò in cucina, dove il lavello era un cumulo di piatti non lavati. Aprì il rubinetto, strizzò il detersivo nella spugna e cominciò a strofinare con gesti bruschi. Un piatto sbatté contro il bordo del lavandino con un clangore sgradevole.
Un anno intero era passato da quando Alessandro, il marito di Cinzia, era morto in un incidente improvviso e assurdo. Giulia provava una sincera compassione per Cinzia: due ragazzini piccoli, nessun sostegno. Io e Alessandro eravamo amici fin dallinfanzia, quasi fratelli. Dovevo esserci per lei, lo capivo bene. Allinizio, le prime settimane.
Ma laiuto non si limitò a quel breve periodo. Sembrava avessi trasferito casa da Cinzia: riparavo il rubinetto, cambiavo le lampadine, portavo i bambini al consultorio. Portavo la spesa, compravo vestiti, pagavo le attività sportive. E tutto con i nostri soldi, di Giulia e miei.
Non avevamo figli. Vivevamo in un monolocale di Bologna, piccolo ma nostro. Sognavamo di comprare una casa più grande, di mettere su una famiglia. Lultimo anno, però, tutti i risparmi svanirono: finiti per le spese di Cinzia, dei suoi bimbi, per le necessità infinite di unaltra famiglia.
Giulia lanciò la spugna nel lavandino; la schiuma schizzò dappertutto, attaccandosi alle pareti. Era irritante, quasi una rabbia bianca. Le sere era sola in casa, mentre io ero da Cinzia a dare una mano, a stare con i suoi figli. Sembrava avesse dimenticato di esserci per la sua stessa moglie.
Provai a parlare con me più volte, ma io sminuivo le sue parole, le definivo esagerazioni, la accusavo di gelosia infondata, dicendo che stavo semplicemente aiutando unamica in lutto.
Era ormai un anno che Alessandro non cera. Forse era tempo che Cinzia imparasse a vivere da sola.
Una sera, tornai verso le nove. Giulia era al computer a finire dei report. Io passai in cucina, facendo suonare il bollitore.
«Giulia, ho sistemato tutto!», gridai. «Il tubo era solo schiacciato, lho aggiustato e lacqua è tornata a scorrere. I bambini erano al settimo cielo! Tommaso e Luca hanno giocato a calcio in cortile, poi Cinzia ci ha fatto delle frittelle con la Nutella»
Giulia non mi ascoltava; le mie parole si trasformavano in un rumore monotono. Portai una tazza di tè in mano alla porta.
«Giulia, mi ascolti?»
«Sì», mormorò lei, ma senza vero interesse.
«Non mi ascolti proprio! Ti sto raccontando e tu»
«Marco, sto lavorando, devo finire il report», replicai, stringendo i denti.
«Sei sempre occupata», sbuffò, e se ne andò.
Sentivo il nome di Alessandro che mi pizzicava lorecchio, le storie dei suoi bambini, le risate, le frittelle. Era come se la casa di Cinzia fosse un vero focolare, mentre il nostro fosse solo un posto dove passare la notte.
Il mese trascorse inesorabile. Io continuavo a passare le notti da Cinzia, a volte fino al mattino. Tornavo stanco ma soddisfatto, a raccontare ancora una volta come i bimbi fossero felici, come Cinzia ringraziasse. Giulia rimaneva in silenzio, non voleva più litigare.
Poi cominciai a fare confronti, quasi per caso. A cena, Giulia riscaldava delle polpette surgelate con il riso, io infilavo la forchetta nella mia pietanza.
«A Cinzia oggi hanno fatto il vero minestrone, con carne e panna», dissi.
Giulia alzò lo sguardo, il petto si contraeva.
«Marco, sono in ufficio tutto il giorno, non ho tempo per cucinare il minestrone», rispose con voce ferma.
«Eppure Cinzia trova il tempo», proseguì. «E la sua casa è sempre in ordine, nonostante i bambini. Lei è davvero in gamba.»
Il mio appetito svanì. «E i bambini li alleva da sola, con una volontà di ferro», aggiunsi, annuendo.
Giulia si alzò, portò il piatto al lavandino, il fastidio era evidente.
Da quella sera le liti aumentarono. Continuavo a lodare Cinzia per la cucina, la pulizia, leducazione dei figli. Giulia scoppiava, mi accusava di non farle più spazio, io mi ferivo e andavo via, per poi tornare e ricominciare lo stesso ciclo.
Giulia iniziò a restare più ore al lavoro, solo per non tornare in un appartamento dove o io ero assente o parlavo soltanto di Cinzia. Restava al computer fino a tardi, sorseggiava caffè da sola, chiacchierava con i colleghi di tutto tranne della sua vita.
Tornò a casa verso mezzanotte, io già addormentato o finto di dormire.
Quella sera, intorno alle dieci, mi trovò al tavolo a masticare dei ravioli surgelati.
«Non cè nulla da mangiare in casa», dissi, fissandola sulluscio.
«Cosa?», replicò, sorpresa.
«Hai di nuovo dimenticato di preparare qualcosa», osservai, indicando il mio piatto. «Io ho dovuto cuocere i ravioli. Da Cinzia, invece, trovi sempre qualcosa di fatto: polpette, insalate, zuppe. Qui cè solo vuoto.»
Qualcosa si spezzò dentro Giulia, come una corda strappata. Fece un passo avanti.
«Allora vai da lei!», urlò. «Se lì ti senti così bene, vai a vivere con lei e lasciami!»
Io rimasi immobile, la forchetta ancora in mano. Il raviolo cadde di nuovo nel piatto.
«Giulia, cosa?»
«Sono stanca!», ansimò, quasi senza fiato. «Stanca di sentire dei suoi minestroni, dei suoi figli, di quanto sia brava! Se vuoi davvero sostituire il marito di Cinzia, prendi il suo posto! Mi sembra che passi più tempo lì che qui! Ti piace più Cinzia che me! Vai a vivere con lei!»
Cercai di parlare, di avvicinarmi, ma Giulia si ritirò.
«Allora rifiuta, adesso, di andare da lei. Dì che non tornerai più, che dobbiamo ricostruire la nostra famiglia. Dillo.»
Rimasi in silenzio. Nei suoi occhi legsi il rifiuto, ma la sua risposta era impossibile: non avrei mai potuto rinunciare a Cinzia.
«Capito», disse Giulia, girandosi verso il corridoio, afferrando la giacca appesa.
«Giulia, dove vai?», mi chiamò.
«Passo la notte da mia madre», rispose, aprendo la porta. «Domani mattina non dovresti più essere qui. Prepara le tue cose e vattene. Spero che a Cinzia trovi posto per te.»
«Giulia, aspetta! Non andare!»
Ma la porta sbatté, facendo vibrare lintero palazzo.
Pochi giorni dopo, presentai la domanda di divorzio. Non cera nulla da dividere: lappartamento era a nome di Giulia, i miei pochi averi li presi la stessa sera, lasciando le chiavi sul tavolino dellingresso.
In tribunale il silenzio era quasi glaciale. Io sedevo su una panca di legno, di fronte a Giulia. Accanto a me cerano Cinzia, i due bambini, Tommaso e Luca, che rimanevano silenziosi accoccolati alla madre. Cinzia e io stringemmo le mani.
Guardai le loro dita intrecciate; io arrossii quando sentii il loro sguardo, ma non lascio la mano.
Arrivò il momento delle firme, dei timbri sul passaporto, dei segni nei documenti. Non eravamo più marito e moglie.
Uscendo dal tribunale, mi voltai. Cinzia, i bambini e io eravamo già diretti verso la macchina. Lei teneva la mano della bambina, Cinzia portava il piccolo in braccio. Sembravano una famiglia vera.
Io mi voltai e camminai nella direzione opposta. Dentro di me non cerano più dolore né rancore, solo un senso di sollievo. Felice di aver lasciato in tempo, di non aver continuato a tormentarmi, di non dover attendere il crollo totale di tutto.
Ero libero, e quella era la decisione migliore della mia vita. Il futuro? Lo lascerò al destino, come dice il proverbio: «Chi ha tempo, non aspetti».






