La panchina per due La neve si era già sciolta, ma la terra del giardinetto era ancora scura e umida e sui vialetti restavano strisce sottili di sabbia. Nadežda Simonetti camminava piano, sorreggendo la borsa della spesa e guardando attentamente dove metteva i piedi. Da tempo aveva sviluppato l’abitudine di notare ogni buca, ogni sassolino. Non era questione di carattere: dopo la frattura al braccio di tre anni prima, la paura di cadere si era insediata nel petto e non aveva più voglia di andarsene. Viveva sola in un bilocale al piano terra di una delle palazzine anni Sessanta vicino al mercato, dove un tempo c’era sempre confusione tra voci, profumi di sugo e sbattere di porte. Ora lì regnava il silenzio. La televisione mormorava di sottofondo, ma lei spesso si accorgeva di non ascoltare, fissando invece solo i sottotitoli che scorrevano. Il figlio la chiamava in video ogni domenica – sempre di corsa, tra una commissione e l’altra, ma almeno chiamava. Il nipotino agitava la manina davanti alla telecamera, mostrava qualche giocattolo. Lei era contenta, ma appena chiudeva la chiamata sentiva la casa riempirsi di nuovo di un’aria ferma e pesante. Aveva una routine precisa: ginnastica, pillole, e la colazione. Poi una breve passeggiata, giusto fino al giardinetto per “far circolare il sangue”, come diceva la sua dottoressa di base. A pranzo preparava qualcosa, guardava i telegiornali, a volte un cruciverba. La sera – una serie, un po’ di maglia. Niente di speciale, ma quella routine la teneva a galla, come ripeteva spesso alla signora Colombo sul pianerottolo. Quel giorno tirava un vento freddo ma asciutto. La signora Nadežda arrivò fino alla sua panchina davanti all’area giochi e si sedette con attenzione sull’estremità, poggiò la borsa e controllò che fosse chiusa. Accanto giocavano due bimbi in tuta da neve colorata, le mamme chiacchieravano ignorando chi passava. Lei decise di riposare solo un pochino, poi sarebbe tornata a casa. Dall’altra parte del giardinetto, verso la fermata dell’autobus, camminava piano il signor Stefano Petrini. Anche lui segnava i passi: settantatré fino all’edicola, centoventi fino all’ambulatorio, novantacinque fino alla fermata. Contare era più semplice che pensare al fatto che a casa non lo aspettava nessuno. Per anni aveva fatto il meccanico all’Ansaldo, tra trasferte, discussioni in officina e risate coi colleghi. Ora la fabbrica era un supermercato e i compagni si vedevano solo ogni tanto, quando non erano finiti già in cimitero o in altre città. Il figlio stava a Torino e veniva una volta l’anno, tre giorni appena. La figlia abitava nel quartiere accanto ma aveva due bambini e il mutuo: “Non ti offendere, papà”, gli diceva, “ho un sacco di pensieri”. Lui diceva che non se la prendeva. Ma la notte, quando fuori era già buio e il termosifone sibilava, tendeva l’orecchio sperando di sentire il rumore della chiave nella porta. Quella mattina era uscito per comprare il pane e magari passare in farmacia a prendere un altro blister per la pressione – “Meglio prevenire” gli diceva il medico. In tasca teneva la lista della spesa scritta in grande, le dita un po’ tremavano ogni volta che la apriva. Arrivando alla fermata vide che l’autobus era appena partito, la gente si stava già disperdendo. Sulla panchina sedeva una donna col cappotto grigio chiaro e un berretto di lana blu. Aveva la borsa accanto e non guardava la strada, ma il giardinetto. Esitò. Gli faceva male la schiena a stare in piedi, metà della panchina era libera, ma aveva timore di sedersi vicino a una donna sconosciuta – “Chissà cosa pensa la gente”. Ma il vento pungeva e alla fine si decise. — Mi permette? — disse chinandosi leggermente in avanti. La donna si voltò. Aveva occhi chiari, con piccole rughe agli angoli. — Ma certo, prego, — rispose lei, spostando la borsa. Sedettero in silenzio. Passò una macchina, lasciando scia di scarico. — Gli autobus fanno quel che vogliono, ormai, — disse lui per rompere il ghiaccio, — appena ti volti spariscono. — Già, — annuì lei. — Ieri mezz’ora d’attesa. Meno male almeno niente pioggia. Lui la guardò meglio. Non la riconobbe, ma da qualche anno il quartiere era cambiato, avevano costruito nuovi palazzi. — Lei abita qui vicino? — chiese con cautela. — Lì, davanti alle cinque piani, primo portone, sopra il negozio. E lei? — Io dietro al giardinetto, nei nove piani. Pure vicino. Silenzio. Nadežda pensava che le conversazioni alla fermata erano normali: due frasi, poi ognuno per la sua strada. Ma quell’uomo aveva un’aria stanca, un po’ smarrita, anche se si sforzava di stare diritto. — In ambulatorio? — domandò lei, accennando alla busta della farmacia. — Sì, sono passato a prendere le medicine, — sollevò lui il sacchetto. — A volte la pressione va a ruota libera. E lei? — Spesa, — rispose. — Cosine. E per camminare, sa, se no si resta chiusi in casa. Detto così, sentì una fitta al petto. “Casa” le era suonato vuoto. Spuntò l’autobus. La gente si mosse, si avvicinarono al bordo marciapiede. L’uomo si alzò, esitò un momento. — Io sono Stefano, — disse alla fine, un po’ impacciato. — Petrini. — Nadežda Simonetti, — rispose lei. — Piacere. Saltarono sull’autobus, ma la folla li separò. Lei si appese alla maniglia, sentiva il veicolo sobbalzare. Ad un certo punto incrociò lo sguardo di Stefano tra le teste. Lui fece un cenno, lei ricambiò. Dopo qualche giorno si incontrarono di nuovo, stavolta proprio al giardinetto. Nadežda era già sulla sua panchina quando vide la sagoma familiare: Stefano camminava aiutandosi con un bastone che prima non aveva. Forse aveva deciso di proteggersi. — Oh, la vicina di fermata! — sorrise lui. — Posso? — Ma certo, — gli fece lei, contenta davvero. Lui si sistemò, il bastone tra sé e il bordo della panchina. — Si sta bene qui, — disse, guardandosi intorno. — Alberi, bambini che giocano. Non come a casa – lì le pareti schiacciano. — Lei vive da solo? — chiese lei, sicura che fosse la domanda giusta. — Sì, — annuì. — Mia moglie è mancata sette anni fa. I figli hanno la loro vita. Lei? — Anch’io, — rispose. — Mio marito se n’è andato da un pezzo. Mio figlio con la famiglia in un’altra città. Mi chiamano, s’intende, però… Fece spallucce. Lui capì. — Le telefonate sono belle, — disse lui. — Ma la sera, quando ti corichi, il telefono resta zitto. Quelle parole semplici a lei parvero calde. Si misero a parlare del più e del meno, prezzi al supermercato e il nuovo medico che cambiava ogni volta. Poi si salutarono, ma il giorno dopo tutti e due scelsero, senza accordarsi, lo stesso orario per la passeggiata. Così divennero regolari quei loro incontri – prima alla fermata o nel verde, poi davanti al market, perfino in ambulatorio. Nadežda si sorprese a organizzare mezza giornata su quando poteva incontrare il signor Stefano. Non lo avrebbe ammesso mai: alzava la sveglia un po’ prima per la colazione, o magari usciva di casa più tardi del solito. Camminavano insieme fino all’ambulatorio, commentando le analisi e la mitica fila elettronica che Nadežda non riusciva proprio a capire. — Deve prenotare tramite SPID, — spiegava la ragazza allo sportello. — Ma che SPID, ho un telefonino che funziona a malapena! — brontolava Nadežda in corridoio. Stefano sorrideva. — Vuole che ci provo io? Ho un vecchio tablet che mi hanno rifilato i figli. Si può prenotare. Proviamo insieme. Lei all’inizio rifiutò, poi accettò. Si sedevano su una panchina dell’ASL, lui stringeva gli occhi davanti allo schermo, cercava la pagina giusta. A volte sbagliava, brontolava piano. Lei rideva, con una leggerezza nuova. — Ecco, vede? Può scegliere medico e orario. Basta ricordarsi la password. — Quella la segno, — disse lei seria. — Ho una rubrica apposta. Un’altra volta fu lei a spiegargli le bollette. Stefano arrivava con i fogli presi dalla cassetta della posta, li posava sul tavolo e sospirava. — Una volta era facile, andavi in posta e pagavi. Ora questi codici, le macchinette… Uno si perde. — Facciamo per ordine, — diceva Nadežda. — Questa è la luce, questa l’acqua. L’importante è non sbagliarsi. Sedevano così, sul tavolo di lei, con il tè e la marmellata fatti in casa. Lei guardava Stefano sistemare le bollette in pile ordinate, chiedere consigli, a volte contraddirla. — Non deve pagare tutto lei per me! — protestò lui una volta. — Ce la faccio da solo. — Ma io non anticipo niente, — ribatté lei decisa. — Lei mi dà i soldi, io solo aiuto. Non sia orgoglioso. Lui si sentì strano: gratitudine e imbarazzo insieme. Odiava dare fastidio, anche nelle piccole cose. A volte litigavano, senza gridare ma con amarezza. Una volta, tornando dal supermercato, parlarono dei figli. — Mio figlio dice: “Papà, vendi la casa e vieni da noi. Perché devi stare da solo?” Ma secondo lei vado a dormire sul loro divano? Già lì è tutto piccolo… E qui almeno ho le mie abitudini. — Anche a me mio figlio ha detto più volte: “Mamma vieni qui, ti facciamo la cameretta”. Hanno una casa grande. Ma io non mi decido mai. Qui ho la tomba di mio marito, le amiche… Anche se a volte penso che magari sarebbe giusto. — Ma cosa dice! — scattò lui. — Lì non servite più a nessuno. Tornano dal lavoro, sono stanchi, i figli hanno i compiti. Restate in un angolo. Ne ho viste tante. — E qui invece a chi servo io? — chiese lei piano. Lui restò zitto. Quel “qui” lo punse. Sembrava ci fosse dentro anche lui, nel discorso. Sentì salire irritazione. — Scusi, — borbottò. — Pensavo che noi… Non finì la frase. “Amici” gli rimase in gola. Alla loro età, suonava ridicolo. — Non intendevo lei, — disse lei con dolcezza, vedendo il suo imbarazzo. — Parlo in generale. Ma a volte penso che se me ne andassi, qui tutto si spezzerebbe. Fa paura. Lui fece cenno. Il resto del tragitto tacquero. Sotto casa, si salutarono freddamente e quella notte lui faticò ad addormentarsi, tormentato dall’idea di aver rovinato tutto. Passarono diversi giorni senza vedersi. Il tempo peggiorò, venne neve bagnata. Nadežda continuò lo stesso le sue passeggiate, ma di Stefano nessuna traccia. Cercò di non pensarci troppo, si disse avrà da fare, magari è solo influenzato. Eppure la preoccupazione restava. Al quarto giorno, tornando dal negozio, trovò un foglietto nella buchetta delle lettere: “Per la signora Nadežda Simonetti. Sono in ospedale. Stefano P.” Nient’altro. Le tremarono le mani. Entrò in casa, posò la spesa sullo sgabello, si sedette al tavolo e fissò quel foglio. Mille pensieri. Infarto? Chi l’ha aiutato? Nessuno ha chiamato? Si ricordò che lui le aveva menzionato una volta il reparto di cardiologia del “San Camillo” vicino alla piazza. Trovò il numero della segreteria e chiamò subito. Aspettò a lungo, poi finalmente le diedero nome e numero di stanza e la invitarono negli orari di visita. Nadežda odiava gli ospedali, quell’odore di disinfettante la inquietava. Ma il giorno dopo, allo scocco dell’orario, era davanti al reparto. Aveva comprato mele e qualche biscotto – si chiese se andava bene, magari gli zuccheri non poteva mangiarli. La stanza era tripla. Un signore anziano sotto la finestra, un ragazzo col braccio al collo vicino alla porta. Stefano stava nel letto di mezzo. Leggeva il giornale. Quando la vide si stupì, poi sorrise sinceramente sollevato. — Nadežda Simonetti! Come mi ha trovata? — Ho tirato il filo, — rispose lei, lasciando il sacchetto sul comodino. — Cos’è successo? — Mi ha preso il cuore di notte, — sospirò lui. — Ambulanza, e ora qui. Starò un po’. Lei lo osservò. Aveva il viso più chiaro, ombre scure sotto gli occhi. Ma negli occhi la stessa luce. — I suoi figli sanno qualcosa? — Mia figlia è venuta, ha portato la minestra. Al figlio ancora non dico nulla, non voglio agitare nessuno. Ne parlò con tono calmo, ma sentiva il nervosismo. Poi aggiunse, sottovoce: — Mia figlia tra l’altro mi ha chiesto chi fosse la signora che ha portato il messaggio. Ho detto che è una vicina che mi aiuta con le scartoffie. A lei quella cosa fece un po’ male. “Una vicina”, freddo, distante. Si sedette. — Vero, sono una vicina, — disse cercando di restare indifferente. — E aiuto con le faccende. Lui la guardò e improvvisamente capì che era stata una sciocchezza. — Mi sono espresso male, volevo dire… è che quando chiede, non so cosa rispondere. Se dico amica, subito pensa che chissà cosa. “Papà, non hai mica diciotto anni!” Pensano sempre che noi vecchi perdiamo la testa. — Ma noi non siamo giovani, — rise lei amaramente, — però siamo ancora persone. Lui annuì, nella stanza calò il silenzio. Il vicino fece finta di dormire. — Sa, mentre ero qui, ho avuto paura. Ma non paura di morire. Paura che se mi portano via, nessuno lo sappia. Rimani lì, guardi il soffitto, nessuno che chiama. I figli sono lontani, hanno i loro pensieri. E io ho pensato a lei. E mi sono sentito meno solo. Nadežda sentì salire il groppo in gola. Guardò il vaso con il fiore appassito sul davanzale. — Anch’io temo quella cosa. Solo che faccio finta di nulla con mio figlio, con i vicini. Poi la sera conto quante pillole mi restano e mi viene da ridere, pensa che scema. — Non è da scemi, — disse lui. — Conta anche a me. Si guardarono e sorrisero, complici e sollevati. Entrò la figlia di Stefano, una signora sulla quarantina, occhi simili ai suoi. — Ciao papà, ti ho portato il minestrone. E chi è la signora? Lui rimase tranquillo: — È la signora Nadežda Simonetti, una buona conoscente. Uscita e commissioni insieme. Mi aiuta per cose tipo le ricette e le bollette. — Buongiorno, — disse la figlia, gentile ma interrogativa. — Grazie d’aiutare papà, lui è testardo, vuole fare tutto da sé. — Facciamo quello che si può, — rispose Nadežda. La donna annuì e iniziò a sistemare. Nadežda si sentì di troppo e dopo poco salutò. — Tornerò a trovarla. — Quando vuole. Così, nei giorni dopo, Nadežda andò spesso a trovarlo. Portava frutta, giornali, un paio di calzini puliti. A volte parlavano, a volte restavano in silenzio, ascoltando solo il suono delle rotelle dei carrelli in corridoio. La figlia di Stefano ormai si era abituata alla sua presenza. Accompagnandola all’ascensore una volta le disse: — Grazie davvero. Io lavoro e non riesco a venire sempre. Fa piacere sapere che qualcuno tiene compagnia a papà. Solo, se c’è qualcosa di grave mi chiami, non si prenda tutte le responsabilità. — Ho i miei limiti, — rispose Nadežda, — Ho anch’io la mia vita. Ma finché posso dare una mano, lo faccio volentieri. Rimandarono Stefano a casa a fine aprile. Il medico lo obbligò a camminare di più, meno stress e le pastiglie sempre alla stessa ora. La figlia lo riportò in auto, gli sistemò la spesa. Il giorno seguente, con il bastone, fece la sua solita passeggiata verso il giardinetto. Nadežda già sedeva sulla loro panchina. Quando lo vide si alzò. — Allora, come va? — Vivo, e già basta. Si sedettero. Restarono in silenzio a lungo, poi lui disse: — In ospedale ho pensato tanto. Voglio dirle una cosa: non voglio essere un peso per lei. Da una parte ero contento che sia venuta, dall’altra mi vergognavo. Magari ha trascurato i suoi impegni per colpa mia. — Che impegni, — fece lei. — La spesa, il telegiornale, i telefilm… Non esageri! — Non voglio che si senta obbligata. Sono vecchio, ma so cavarmela. Lei lo guardò seria. — Crede che io voglia dipendere da qualcuno? Anch’io temo di essere un peso. Perciò cerco di fare da sola… Ma abbia capito una cosa: si può restare chiusi in casa a temere di dar fastidio a qualcuno, oppure ci si può mettere d’accordo. Senza promesse esagerate. Basta esserci, per quanto si può. Lui rimase un po’ in silenzio. — In che senso? — Ecco: lei non mi chiama di notte per parlare, io non sono il pronto soccorso. Ma se le serve la compagnia per l’ambulatorio, mi chiami. Se ha bollette da sistemare, venga pure. Se le serve qualcosa dal supermercato si arrangia, però: non sono una corriera. — Fermo e deciso! — rise lui. — Sincero, — puntualizzò lei. — E vale per entrambi. Se sto male e ho bisogno le dico. Ma non pretendo che lasci tutto e corra. Ha figli, nipoti… Lo rispetto, e lei faccia lo stesso con me. Lui annuì, liberato. — Affare fatto. Ognuno aiuta l’altro, ma niente infermiera e badante. — Esatto. Da quel momento la loro amicizia divenne serena. Passeggiavano, facevano la spesa ogni tanto insieme, andavano in ambulatorio, ma sapevano dove era il limite. Quando il miscelatore di Nadežda si ruppe, chiamò Stefano: — Può dare un’occhiata? Ho paura che scoppi tutto. — Posso vedere. Ma se c’è da smontare tutto chiamiamo il tecnico, ormai ho i miei acciacchi. Si misero a tavola nell’attesa, lui raccontava della sua gioventù, lei rifletteva che la vecchiaia è anche saper riconoscere quando da soli non si riesce più a far tutto. Ogni tanto andavano al mercato cittadino. Tra voci e bancarelle, Stefano trattava il prezzo delle patate, Nadežda quello del pollo. Tornando si lamentavano dei costi, ma sapevano bene che senza quella gita il giorno sarebbe stato molto più vuoto. Anche i figli reagivano a modo loro. Il figlio di Nadežda la chiamò una volta: — Mamma, parli sempre di questo Stefano Petrini. Chi è? — Un vicino, — rispose lei. — Mi aiuta col tablet, io con le bollette. — Attenta con soldi e documenti, oggigiorno non si sa mai. Lei sorrise. — Non sono nata ieri, stai tranquillo. Anche la figlia di Stefano lo avvisava. — Papà, non fare troppo affidamento sulla vicina, non è mica una badante. E poi chissà, magari ha le sue idee… — Abbiamo un nostro patto, — rispondeva lui. — Non ci sfruttiamo, ci aiutiamo. — Che patto? — Un patto fra vecchi, — scherzava lui. Arrivò l’estate. Il verde del giardino era in piena, le panchine affollate di mamme, ragazzi con le cuffiette, altri pensionati. Ma la loro panchina era ormai “quella di Nadežda e Stefano”, e loro si sedevano sempre lì, quasi a voler conservare un piccolo ordine in quel mondo caotico. Una sera, con la luce dorata del tramonto, guardarono insieme i ragazzini che giocavano a pallone. L’aria profumava di erba tagliata e terra polverosa. Stefano aggiustò la posizione del bastone sulla panchina. — Sa cosa ho capito? Prima pensavo che la vecchiaia fosse quando tutto finisce: lavoro, amici, passioni. Restano medicine e TV. Ora so che qualcosa può ancora cominciare. Non come da ragazzi, ma in un altro modo. — Parla di noi? — sorrise lei. — Anche. Non so come chiamarlo: amicizia, compagnia, farsi squadra nelle file. Però con lei… sto più tranquillo. Ho meno paura. Lei guardò le mani di entrambi: segnate, simili. — Anche io, — disse. — Prima di addormentarmi, pensavo: se domani non mi sveglio, chi se ne accorgerà? Ora so che almeno una persona si chiederà perché non sono venuta in giardino. Lui rise piano. — Non solo me lo chiederò: metto sottosopra tutto il palazzo! — E fa bene. Restarono ancora un po’, poi si alzarono e si incamminarono piano ciascuno dal proprio lato della strada. — Domani ambulatorio? — Sì, devo fare le analisi. Vieni con me? — Certo, ma solo fino alla sala prelievi, poi se resto mi succhiano il sangue a me! Lei sorrise. — D’accordo. Si salutarono e ognuno entrò nel proprio portone. Nadežda andò in cucina, pose la borsa, mise su il tè. Mentre l’acqua bolliva guardò fuori dalla finestra. Giù Stefano trafficava col portone del suo palazzo. Alzò lo sguardo, la vide, le fece cenno con la mano. Lei ricambiò. Il bollitore fischiò. Prese una tazza, il pane, si mise a tavola. La sciarpa di lana giaceva sulla sedia di fronte. Appoggiò la mano e si accorse che in quella quiete c’era qualcosa di diverso. Non era silenzio sordo, ora. Da qualche parte, oltre il cortile e i muri delle altre case, c’era qualcuno che domani l’avrebbe accompagnata all’ambulatorio, seduto con lei, pronto a chiederle come stava davvero. La vecchiaia non spariva certo: le articolazioni facevano male, le medicine erano da prendere con precisione, i prezzi salivano. Ma ora c’era un piccolo appoggio. Non un miracolo, non una salvezza. Solo un’altra panchina nella vita, dove fermarsi in due, riprendere fiato e andare avanti – ognuno coi suoi passi, ma fianco a fianco.

Panchina per due

La neve si era già sciolta, ma la terra nel parchetto restava scura e umida, e sui vialetti cerano strisce sottili di sabbia. Giulia Sereni avanzava piano, stringendo la borsa della spesa, e guardava i propri piedi. Da anni aveva preso labitudine di memorizzare ogni buca, ogni sasso. Non era tanto per eccessiva prudenza, ma dopo una frattura al braccio, tre anni prima, la paura di cadere si era annidata nel petto e non laveva più lasciata.

Viveva sola in un bilocale al piano terra, una casa che una volta era piena di voci, profumi di sugo, porte che sbattevano. Ora cera silenzio. La televisione borbottava di sottofondo, ma spesso si rendeva conto che non ascoltava: guardava solo i titoli che scorrevano. Il figlio la chiamava su WhatsApp la domenica di fretta, tra una cosa e laltra, ma chiamava. Il nipote ogni tanto compariva nello schermo, la salutava con la mano, mostrava dei pupazzi. Lei si rallegrava, ma appena riattaccava sentiva laria della casa diventare di nuovo immobile.

Aveva una routine: ginnastica, pillole, caffelatte e biscotti al mattino. Poi una breve passeggiata fino al parco, per riattivare la circolazione, come diceva la dottoressa. Dopo, cucinare qualcosa, guardare il telegiornale, ogni tanto un cruciverba. La sera serie TV e uncinetto. Non era nulla di speciale, ma le consentiva di restare in forma così ripeteva sempre alla vicina sulle scale.

Oggi il vento era tagliente, ma secco. Giulia Sereni arrivò alla sua panchina accanto alla piccola area giochi e si sedette con cautela sullestremità. Poggiò la borsa accanto a sé, verificò che fosse chiusa. Due bambini giocavano a rincorrersi nelle tute colorate, le madri chiacchieravano ignorando i passanti. Decise che sarebbe rimasta solo qualche minuto, poi sarebbe tornata a casa.

Dallaltro lato del parco, Andrea Rinaldi stava andando verso la fermata dellautobus, contando i passi. Fino alledicola erano settantatré; alla farmacia centoquindici; al capolinea novantaquattro. Contare i passi era meglio che pensare al fatto che nessuno lo aspettava a casa.

Un tempo faceva loperaio in fabbrica, partiva per i cantieri, litigava coi capi e rideva con i colleghi in pausa sigaretta. Da tempo la fabbrica aveva chiuso. Degli amici, ne vedeva sempre meno: qualcuno era andato dai figli, qualcuno ormai al cimitero. Il figlio viveva a Milano, veniva una volta lanno per tre giorni, sempre di corsa. La figlia abitava nel quartiere accanto, ma lavorava e aveva due figli piccoli, il mutuo sulle spalle. Non se la prendeva o almeno così si diceva. Ma la sera, quando era già buio e il termosifone sibilava, si scopriva in ascolto: forse un giorno la serratura scatterà.

Oggi era uscito per comprare il pane e, già che cera, sarebbe passato in farmacia a prendere altre pastiglie per la pressione. La dottoressa aveva raccomandato di non restare mai senza. Teneva in tasca la lista scritta in caratteri grandi, le dita tremavano un poco mentre la tirava fuori per controllare di non aver scordato nulla.

Arrivato alla fermata, vide che lautobus era appena partito. Gente che si disperdeva. Su una panchina, una donna con un piumino grigio chiaro e un berretto azzurro di lana. Accanto a lei, la borsa. Non guardava la strada, ma il parchetto.

Andrea esitò. Stare in piedi era scomodo, la schiena faceva male. La panchina era a metà libera, ma aveva sempre pudore a sedersi accanto a donne sconosciute. Chissà cosa pensano. Però il vento gli entrava nelle ossa, così prese coraggio.

Posso sedermi? chiese, chinando la testa.

La donna si voltò. Aveva occhi chiari, le rughette agli angoli.

Certo, si accomodi rispose, spostando un po la borsa.

Si sedette, appoggiando le mani ai lati della panchina. Silenzio. Una macchina passò lasciando odore di scarico.

Gli autobus vanno come capita, di questi tempi commentò lui, rompendo la quiete. Ti distrai un attimo e se ne vanno.

Eh già annuì lei . Ieri ho aspettato mezzora. Almeno non cera pioggia.

Lui la guardò meglio. Il viso non gli diceva nulla, ma nel quartiere ormai cerano troppe facce nuove.

Abita qui vicino? domandò con cautela.

Lì, di fronte disse lei indicando i palazzi bassi oltre la strada. Primo ingresso, sopra lalimentari. E lei?

Dallaltro lato del parco, nel palazzone alto rispose Andrea. Anche io sono della zona.

Tacquero di nuovo. Giulia pensava che i dialoghi alla fermata fossero la norma: due parole, ognuno per la sua strada. Ma lui appariva stanco, un po smarrito, anche se faceva il burbero.

Va in farmacia? chiese lei guardando il suo sacchetto.

Sì, dovevo prendere le pastiglie disse lui alzando il sacchetto . La pressione fa i capricci. E lei?

In alimentari rispose . Due cosine. E poi bisogna camminare, altrimenti si resta troppo in casa.

Appena pronunciata quella parola, casa, sentì una fitta amara. Suonava vuota.

Lautobus comparve dallincrocio. La gente si avvicinò al marciapiede. Andrea si alzò, indugiò un attimo.

Io sono Andrea, fra laltro disse tutto dun fiato. Andrea Rinaldi.

Giulia Sereni rispose lei alzandosi a sua volta. Piacere.

Saliti sullautobus, la calca li separò. Giulia si tenne al corrimano, sentendo i sobbalzi sulle buche. Tra la gente intravide ancora Andrea, che le fece un cenno. Lei rispose di rimando.

Qualche giorno dopo si incontrarono di nuovo, di nuovo nel parco. Giulia era alla sua panchina quando lo riconobbe. Andrea avanzava appoggiato a un bastone: prima non laveva. Sembrava avesse deciso di prevenire brutte cadute.

Ecco la mia vicina di fermata sorrise lui . Posso fermarmi?

Certo disse lei, e ne fu quasi contenta.

Andrea si accomodò, mettendo il bastone accanto a sé.

Qui si sta bene disse guardandosi attorno . Alberi, bambini che giocano. Casa a volte sembra di soffocare fra i muri.

Vive da solo? chiese lei, ormai convinta fosse una domanda naturale.

Solo fece lui con un cenno. La moglie è mancata sette anni fa. I figli per conto loro. E lei?

Anchio sola rispose lei . Mio marito è morto ventanni fa. Mio figlio con la sua famiglia a Torino. Mi chiamano, certo, ma

Alzò le spalle. Lui annuì comprensivo.

Le chiamate vanno bene disse . Ma la sera il telefono resta zitto.

Quelle parole, così semplici, la scaldarono.

Parlarono un po di prezzi, del tempo, del fatto che alla mutua avevano cambiato ancora medico. Poi si salutarono e il giorno dopo, senza accordarsi, entrambi uscirono alla stessa ora.

Così cominciarono i loro incontri regolari. Prima alla fermata e al parco, poi davanti al negozio, infine pure allingresso della mutua. Giulia si accorse di regolare i suoi orari per incontrare Andrea. Non lo ammetteva nemmeno a se stessa: solo una cottura anticipata, oppure una partenza più lenta.

Andavano insieme alla mutua, commentando quali esami servivano a chi, criticando la burocrazia digitale a cui Giulia non si adattava.

Deve farlo con lo SPID spiegava la giovane impiegata. Ci si iscrive online.

Che online, io ho il telefonino vecchio che quasi non prende brontolava Giulia uscendo nel corridoio.

Andrea ascoltava, scuotendo la testa.

Si vuole che la aiuti io? propose un giorno. Ho un tablet che i miei figli mi hanno regalato. Ci dovrebbe essere laccesso lì. Vediamo insieme, magari.

Allinizio Giulia rifiutò, poi accettò. Si sedettero su una panchina davanti al poliambulatorio, e lui, strizzando gli occhi sullo schermo, cercava la sezione giusta, a volte sbagliando e sbuffando sommessamente. Lei rideva, e la sua risata le usciva naturale.

Ecco disse lui alla fine , si può scegliere orario e dottore. Basta ricordarsi la password.

Me la segno rispose Giulia convinta. Tengo un quadernetto per queste cose.

Una volta fu lei ad aiutarlo con le bollette. Andrea le portò una pila di fatture recuperate dalla buca delle lettere.

Una volta era facile sospirava . Andavi alla Posta, pagavi. Ora ci sono codici, scontrini, bancomat da impazzire.

Gliele ordino io diceva Giulia paziente : questa è per la luce, questa per lacqua. Basta non confondersi.

Sedevano in cucina da Giulia, davanti a un tè caldo. Lei tirava fuori la marmellata di prugne, lui portava le ciambelline. Dalla finestra si vedeva il cortile coi bambini in bicicletta. Le piaceva vedere Andrea che ordinava i fogli, chiedeva consigli, ogni tanto si incaponiva.

Non serve che paghi lei, protestò un giorno quando lei proponeva di usare il POS visto che lui faticava . Faccio da solo.

Ma mi dà i contanti, mica anticipo io lo rimbeccava lei. Non faccia il bambino.

Lui si vergognava un po, ma accettava. Dentro si agitava un sentimento strano, un misto di gratitudine e imbarazzo. Non amava dover nulla a nessuno.

Ogni tanto litigavano, mai a voce alta ma risentiti. Un giorno uscendo dal negozio parlarono dei figli.

Mio figlio vuole che vendo la casa e vado da lui raccontava Andrea . Ma alla loro età? Vivrei sul divano qui invece ho le mie cose.

Anche mio figlio vorrebbe che mi trasferissi sospirò Giulia . Hanno tanto spazio, ma rimando sempre. Qui ho le tombe, le amiche. Forse dovrei, ma ho paura.

Ma lì non servono a nessuno disse di scatto lui . Tra lavoro, scuola, nessuno ha tempo. Qui almeno cè la tua roba, i tuoi ritmi.

E qui, a chi servo? replicò lei tranquilla.

Lui tacque. Quella parola qui lo punse. Gli parve che si riferisse anche a lui. Savvilì, sentendo salire lirritazione.

Scusa borbottò . Pensavo che ormai fossimo

Non finì la frase. Amici gli sembrava troppo. Lei lo intuì.

Non parlavo di lei disse composta . Parlo in generale. Ho paura che andandomene qui tutto sparisca. Questo sì.

Lui annuì, fecero il resto della strada in silenzio. Al portone lui salutò un po brusco, e quella notte faticò a dormire, rimuginando di aver rovinato tutto.

Per alcuni giorni non si videro. Il tempo peggiorò, arrivò una pioggia fredda e nevischio. Giulia comunque uscì per una breve passeggiata, ma Andrea niente.

Il quarto giorno, tornando dal supermercato, trovò nella buca delle lettere un foglio: Per Giulia Sereni. Sono allospedale. Andrea R. Nessun indirizzo, né stanza, solo quello.

Le mani le tremavano. Entrò in casa, poggiò la borsa, si sedette fissando il foglio. Mille pensieri: che era successo? Infarto? Aiuto? Chi laveva soccorso?

Le tornò in mente quella volta che Andrea citava il reparto di cardiologia in ospedale: cercò sul cellulare il numero della segreteria che aveva appuntato. Chiamò, attese, venne passata da un interno allaltro. Alla fine le diedero il numero di stanza e lorario visite.

Le ospedali lavevano sempre fatta rabbrividire, quellodore di alcool e disinfettante. Ma il giorno dopo, allapertura visite, era già lì. Aveva portato mele e biscotti. Sperava non fossero troppo dolci per lui.

Passò davanti alle stanze: nella terza trovò Andrea, schienato tra i cuscini a leggere il giornale. Vedendola, allinizio sembrò imbarazzato, poi il sollievo lo illuminò.

Giulia Sereni! posò il giornale. Come mi ha trovata?

Un po dastuzia rispose lei, appoggiando la spesa . Che cosè successo?

Il cuore sospirò lui . Di notte, lambulanza mha portato qui. Qualche giorno qui, poi torno.

Giulia lo osservò bene. Più pallido, occhiaie. Ma negli occhi, la solita luce.

I figli sanno? domandò.

La figlia è venuta, ha portato il brodo. Al figlio non dico nulla: non voglio preoccuparlo.

Lo disse pacato, ma la voce tradiva una tensione. Poi aggiunse piano:

Mia figlia mha chiesto di lei. Chi è questa signora della lettera? Ho detto che aiuta con le pratiche, che siamo vicini.

Giulia sentì un colpo interno. Vicini che aiutano sembrava poco, quasi estraneo. Si accomodò sulla sedia.

Ma è la verità disse, cercando il tono fermo . A volte le pratiche si fanno insieme.

Andrea la fissò e capì che aveva parlato male. Si vergognò.

Non volevo dir così affrettò . Lei mha chiesto in modo diffidente. Se le dico che è unamica, parte subito: Papà, mica hai diciotto anni!. Temono che impazziamo.

In effetti non abbiamo più diciotto anni rise lei . Ma sempre persone restiamo.

Lui annuì. In corsia tornò il silenzio. Il vicino di letto fece finta di dormire.

Sa disse Andrea : sdraiato qui di notte, mi sono accorto che il peggio non è la morte, ma il pensiero che se succede qualcosa, nessuno lo sa. I figli lavorano, hanno la loro vita Poi ho ricordato lei. Mi sono sentito meglio. Se non altro qualcuno sa dove sono.

A Giulia venne un nodo in gola. Distolse lo sguardo dalla finestra, dove su un davanzale cera una piantina mezza secca.

Anchio ho paura confessò. Faccio sempre la forte: col figlio, coi vicini. Ma di sera, sola, conto quante pastiglie mi restano. Fa ridere, eh?

Non fa ridere rispose lui . Anchio conto.

Si guardarono e sorrisero di intesa: un piccolo riconoscimento umano.

In quel momento entrò una donna sui quarantanni, borsetta della spesa in mano. Somigliava ad Andrea: stesso sguardo deciso.

Papà disse posando il sacchetto . Ho portato il minestrone. E lei chi è?

Guardò Giulia, a metà tra il curioso e il cortese.

Giulia Sereni rispose calma Andrea . Una cara conoscente. Facciamo le cose insieme, lei mi aiuta con le pratiche e le ricevute.

Buongiorno disse la donna educata . Grazie dellaiuto. Sa, è testardo, vuol far tutto da solo.

Buongiorno ricambiò Giulia. Ogni tanto si passeggia insieme.

La donna annuì, ma rimase guardinga. Si occupò di sistemare la stanza, fece domande al padre. Giulia si sentì di troppo e salutò.

Passerò ancora disse sulla porta.

Venga rispose lui. Se non le pesa.

Mi fa solo piacere replicò uscendo.

A casa, rimuginò sulle parole udite. Cara conoscente suonava modesto, ma forse era così che andava. A quelletà, parole grosse stonavano. Importava che lavesse cercata, quando era spaventato.

Andrea restò in ospedale due settimane. Giulia andava a trovarlo un giorno sì e uno no, portava frutta, calze pulite, dei quotidiani. Spesso stavano zitti, ascoltando il tintinnar dei carrelli in corridoio. Talvolta evocavano storie: la fabbrica, la scuola, la casa di campagna ormai venduta.

La figlia di Andrea finì per accettare la sua presenza. Un giorno, accompagnandola allascensore, le disse:

Grazie. Lavoro, non posso passare spesso. Importante che papà abbia qualcuno con cui parlare. Ma non prenda tutto sulle sue spalle, eh. Se è serio, chiami me.

Non mi prendo tutto rispose Giulia pacata . Lei ha la sua vita, io la mia. Se posso dare una mano, lo faccio volentieri.

Andrea fu dimesso a fine aprile. Il medico raccomandò camminate, poco stress, pillole regolari. La figlia lo accompagnò in auto, lo aiutò a sistemarsi. Il mattino seguente, con il bastone, scese in cortile diretto al parco.

Giulia era già lì, sulla panchina. Appena lo vide si alzò.

Allora? domandò scrutando il volto.

Sopravvissuto ghignò lui . E va già bene.

Si sedettero insieme, in silenzio, ascoltando i rumori del cortile. Poi Andrea disse:

Ho pensato tanto, in ospedale. Non voglio esserle di peso. Mi fa piacere che sia venuta, ma ho anche una certa vergogna come se lavessi disturbata.

Quali impegni dovrei lasciare? sospirò lei . Il supermercato, la mutua, i telefilm non esageri.

Comunque, insistette non vorrei che si sentisse obbligata a badare a me. Sono adulto, non un bambino.

Lo guardò a lungo.

Crede che a me piaccia pensare di pesare su qualcuno? Anchio temo quello, e perciò faccio sempre tutto da sola. Ma ho capito una cosa. Si può restare chiusi in casa a temere di disturbare, oppure si può mettersi daccordo. Non bisogna promettere miracoli, solo esserci, secondo le possibilità.

Lui ci pensò su.

E cioè? domandò.

Vuol dire spiegò contando sulle dita : lei non mi chiama di notte solo perché ha linsonnia. Non sono il pronto soccorso. Ma se ha bisogno di andare alla mutua e le mette ansia, mi telefoni. Se cè da ordinare le bollette, venga pure da me. Ma per la spesa, se è in grado va da solo, non sono una portinaia.

Andrea si mise a ridere.

È dura.

È onesto replicò lei. Però vale anche per me. Se sto male, la chiamo. Ma non pretendo che lasci tutto e venga di corsa. Lei ha i figli, io mio figlio. Rispetto.

I ruoli ora erano chiari, e Andrea si sentì sollevato.

Daccordo concluse . Aiuto reciproco, però niente crocerossini.

Esatto sorrise lei.

Da allora la loro amicizia divenne più serena. Continuavano a vedersi al parco, ad andare insieme alla mutua, ogni tanto a bere il tè a casa. Ora però ognuno conosceva i confini.

Quando a Giulia si ruppe il rubinetto, telefonò ad Andrea.

Potrebbe dare unocchiata? Ho paura che salti tutto.

Posso vedere rispose . Ma se è grave, chiamiamo lidraulico, non sono più quello di una volta.

Lui venne, diagnosticò che ci voleva la sostituzione, aiutò a chiamare il tecnico. Mentre aspettavano, chiacchieravano in cucina. Raccontava di come una volta sapesse riparare tutto, ora non più. Lei pensava che la vecchiaia fosse anche imparare a chiedere aiuto, senza vergogna.

Talvolta andavano insieme al mercato. Tra la folla, Andrea trattava sulla frutta, Giulia sceglieva il pollo. Tornando, si lamentavano dei prezzi, ma entrambi sapevano che senza quella uscita, le giornate sarebbero state più vuote.

I figli reagivano a modo loro. Un giorno il figlio di Giulia la chiamò, sospettoso:

Mamma, parli spesso di questo Andrea Rinaldi. Chi è?

Un vicino rispose . Andiamo a camminare, mi aiuta col tablet, io con le bollette.

Guardati da chi metti in mano soldi e carte, mi raccomando.

Lei rise.

So ancora badare a me, stai tranquillo.

Anche la figlia di Andrea ogni tanto indagava.

Papà, occhio a non esagerare con questa signora. Non è mica una badante. Ognuno la sua vita.

Abbiamo un patto rispondeva lui . Non ci sfruttiamo.

Che patto?

Quello dei vecchietti scherzava lui.

Lestate arrivò piano. Le foglie si aprirono, le panchine del parco si riempirono. Giovani mamme, adolescenti con le cuffie, altri pensionati. Ma Andrea e Giulia avevano la loro panchina prenotata: sempre lo stesso posto, quasi a trattenere lordine nel mondo.

Una sera, col sole basso, guardavano i bambini giocare a pallone. Il vento aveva odore di polvere e prato. Andrea aggiustò il bastone vicino alla panchina.

Sa cosa ho capito disse fissando i ragazzi in campo . Pensavo che la vecchiaia fosse la fine di tutto: lavoro, amicizie, persino il piacere di leggere. Restano solo medicine e TV. Ora vedo che qualcosa può anche cominciare, in modo diverso.

Sta parlando di noi? chiese lei, sorridendo.

Anche di noi annuì lui . Non so che nome dargli: amicizia, alleanza, compagnia da file e ricette. Ma con lei sto più tranquillo. Ho meno paura.

Lei guardò le sue mani, nodose e segnate. Poi le proprie: si somigliavano, mani che avevano vissuto tanto.

Anchio disse . Prima di dormire, pensavo: se domani non mi sveglio, chi si accorge? Ora so che almeno una persona si chiederebbe perché non sono scesa al parco.

Andrea sorrise.

Non solo mi chiederei: muovo tutto il condominio!

E fa bene accennò lei.

Sedettero ancora un poco, poi si alzarono, camminando lenti, ognuno dal suo lato del sentiero. Al bivio si fermarono.

Domattina alla mutua? chiese lui.

Sì confermò lei . Devo fare gli esami del sangue. Mi accompagna?

Fino alla porta dellambulatorio rise lui . O mi succhierò tutto il sangue a parole!

Lei ridacchiò.

Perfetto.

Si salutarono e andarono ciascuno al proprio portone. Giulia salì le scale, entrò, posò la borsa, andò in cucina ad accendere il bollitore. Mentre lacqua scaldava, si affacciò alla finestra.

In fondo, Andrea armeggiava con la serratura. Alzò la testa come se sentisse il suo sguardo, la salutò con la mano. Lei rispose allo stesso modo.

La teiera fischiò. Giulia versò il tè, prese una fetta di pane. Davanti a lei, sulla sedia, cera la sua sciarpa alluncinetto. Vi posò la mano e si rese conto che in quel silenzio cera qualcosa di nuovo. Non era più mutismo profondo, ma uno spazio popolato. Qualcuno la aspettava, domani sarebbero andati insieme dal medico, sarebbero rimasti seduti in corridoio, avrebbero brontolato sui dottori, si sarebbero domandati a vicenda come va.

La vecchiaia restava, certo: dolori, farmaci, prezzi alti. Ma adesso cera un piccolo appoggio. Nessun miracolo, nessuna salvezza. Solo una panchina in più dove fermarsi e riprendere fiato in due, per continuare ognuno col proprio passo, ma insieme.

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La panchina per due La neve si era già sciolta, ma la terra del giardinetto era ancora scura e umida e sui vialetti restavano strisce sottili di sabbia. Nadežda Simonetti camminava piano, sorreggendo la borsa della spesa e guardando attentamente dove metteva i piedi. Da tempo aveva sviluppato l’abitudine di notare ogni buca, ogni sassolino. Non era questione di carattere: dopo la frattura al braccio di tre anni prima, la paura di cadere si era insediata nel petto e non aveva più voglia di andarsene. Viveva sola in un bilocale al piano terra di una delle palazzine anni Sessanta vicino al mercato, dove un tempo c’era sempre confusione tra voci, profumi di sugo e sbattere di porte. Ora lì regnava il silenzio. La televisione mormorava di sottofondo, ma lei spesso si accorgeva di non ascoltare, fissando invece solo i sottotitoli che scorrevano. Il figlio la chiamava in video ogni domenica – sempre di corsa, tra una commissione e l’altra, ma almeno chiamava. Il nipotino agitava la manina davanti alla telecamera, mostrava qualche giocattolo. Lei era contenta, ma appena chiudeva la chiamata sentiva la casa riempirsi di nuovo di un’aria ferma e pesante. Aveva una routine precisa: ginnastica, pillole, e la colazione. Poi una breve passeggiata, giusto fino al giardinetto per “far circolare il sangue”, come diceva la sua dottoressa di base. A pranzo preparava qualcosa, guardava i telegiornali, a volte un cruciverba. La sera – una serie, un po’ di maglia. Niente di speciale, ma quella routine la teneva a galla, come ripeteva spesso alla signora Colombo sul pianerottolo. Quel giorno tirava un vento freddo ma asciutto. La signora Nadežda arrivò fino alla sua panchina davanti all’area giochi e si sedette con attenzione sull’estremità, poggiò la borsa e controllò che fosse chiusa. Accanto giocavano due bimbi in tuta da neve colorata, le mamme chiacchieravano ignorando chi passava. Lei decise di riposare solo un pochino, poi sarebbe tornata a casa. Dall’altra parte del giardinetto, verso la fermata dell’autobus, camminava piano il signor Stefano Petrini. Anche lui segnava i passi: settantatré fino all’edicola, centoventi fino all’ambulatorio, novantacinque fino alla fermata. Contare era più semplice che pensare al fatto che a casa non lo aspettava nessuno. Per anni aveva fatto il meccanico all’Ansaldo, tra trasferte, discussioni in officina e risate coi colleghi. Ora la fabbrica era un supermercato e i compagni si vedevano solo ogni tanto, quando non erano finiti già in cimitero o in altre città. Il figlio stava a Torino e veniva una volta l’anno, tre giorni appena. La figlia abitava nel quartiere accanto ma aveva due bambini e il mutuo: “Non ti offendere, papà”, gli diceva, “ho un sacco di pensieri”. Lui diceva che non se la prendeva. Ma la notte, quando fuori era già buio e il termosifone sibilava, tendeva l’orecchio sperando di sentire il rumore della chiave nella porta. Quella mattina era uscito per comprare il pane e magari passare in farmacia a prendere un altro blister per la pressione – “Meglio prevenire” gli diceva il medico. In tasca teneva la lista della spesa scritta in grande, le dita un po’ tremavano ogni volta che la apriva. Arrivando alla fermata vide che l’autobus era appena partito, la gente si stava già disperdendo. Sulla panchina sedeva una donna col cappotto grigio chiaro e un berretto di lana blu. Aveva la borsa accanto e non guardava la strada, ma il giardinetto. Esitò. Gli faceva male la schiena a stare in piedi, metà della panchina era libera, ma aveva timore di sedersi vicino a una donna sconosciuta – “Chissà cosa pensa la gente”. Ma il vento pungeva e alla fine si decise. — Mi permette? — disse chinandosi leggermente in avanti. La donna si voltò. Aveva occhi chiari, con piccole rughe agli angoli. — Ma certo, prego, — rispose lei, spostando la borsa. Sedettero in silenzio. Passò una macchina, lasciando scia di scarico. — Gli autobus fanno quel che vogliono, ormai, — disse lui per rompere il ghiaccio, — appena ti volti spariscono. — Già, — annuì lei. — Ieri mezz’ora d’attesa. Meno male almeno niente pioggia. Lui la guardò meglio. Non la riconobbe, ma da qualche anno il quartiere era cambiato, avevano costruito nuovi palazzi. — Lei abita qui vicino? — chiese con cautela. — Lì, davanti alle cinque piani, primo portone, sopra il negozio. E lei? — Io dietro al giardinetto, nei nove piani. Pure vicino. Silenzio. Nadežda pensava che le conversazioni alla fermata erano normali: due frasi, poi ognuno per la sua strada. Ma quell’uomo aveva un’aria stanca, un po’ smarrita, anche se si sforzava di stare diritto. — In ambulatorio? — domandò lei, accennando alla busta della farmacia. — Sì, sono passato a prendere le medicine, — sollevò lui il sacchetto. — A volte la pressione va a ruota libera. E lei? — Spesa, — rispose. — Cosine. E per camminare, sa, se no si resta chiusi in casa. Detto così, sentì una fitta al petto. “Casa” le era suonato vuoto. Spuntò l’autobus. La gente si mosse, si avvicinarono al bordo marciapiede. L’uomo si alzò, esitò un momento. — Io sono Stefano, — disse alla fine, un po’ impacciato. — Petrini. — Nadežda Simonetti, — rispose lei. — Piacere. Saltarono sull’autobus, ma la folla li separò. Lei si appese alla maniglia, sentiva il veicolo sobbalzare. Ad un certo punto incrociò lo sguardo di Stefano tra le teste. Lui fece un cenno, lei ricambiò. Dopo qualche giorno si incontrarono di nuovo, stavolta proprio al giardinetto. Nadežda era già sulla sua panchina quando vide la sagoma familiare: Stefano camminava aiutandosi con un bastone che prima non aveva. Forse aveva deciso di proteggersi. — Oh, la vicina di fermata! — sorrise lui. — Posso? — Ma certo, — gli fece lei, contenta davvero. Lui si sistemò, il bastone tra sé e il bordo della panchina. — Si sta bene qui, — disse, guardandosi intorno. — Alberi, bambini che giocano. Non come a casa – lì le pareti schiacciano. — Lei vive da solo? — chiese lei, sicura che fosse la domanda giusta. — Sì, — annuì. — Mia moglie è mancata sette anni fa. I figli hanno la loro vita. Lei? — Anch’io, — rispose. — Mio marito se n’è andato da un pezzo. Mio figlio con la famiglia in un’altra città. Mi chiamano, s’intende, però… Fece spallucce. Lui capì. — Le telefonate sono belle, — disse lui. — Ma la sera, quando ti corichi, il telefono resta zitto. Quelle parole semplici a lei parvero calde. Si misero a parlare del più e del meno, prezzi al supermercato e il nuovo medico che cambiava ogni volta. Poi si salutarono, ma il giorno dopo tutti e due scelsero, senza accordarsi, lo stesso orario per la passeggiata. Così divennero regolari quei loro incontri – prima alla fermata o nel verde, poi davanti al market, perfino in ambulatorio. Nadežda si sorprese a organizzare mezza giornata su quando poteva incontrare il signor Stefano. Non lo avrebbe ammesso mai: alzava la sveglia un po’ prima per la colazione, o magari usciva di casa più tardi del solito. Camminavano insieme fino all’ambulatorio, commentando le analisi e la mitica fila elettronica che Nadežda non riusciva proprio a capire. — Deve prenotare tramite SPID, — spiegava la ragazza allo sportello. — Ma che SPID, ho un telefonino che funziona a malapena! — brontolava Nadežda in corridoio. Stefano sorrideva. — Vuole che ci provo io? Ho un vecchio tablet che mi hanno rifilato i figli. Si può prenotare. Proviamo insieme. Lei all’inizio rifiutò, poi accettò. Si sedevano su una panchina dell’ASL, lui stringeva gli occhi davanti allo schermo, cercava la pagina giusta. A volte sbagliava, brontolava piano. Lei rideva, con una leggerezza nuova. — Ecco, vede? Può scegliere medico e orario. Basta ricordarsi la password. — Quella la segno, — disse lei seria. — Ho una rubrica apposta. Un’altra volta fu lei a spiegargli le bollette. Stefano arrivava con i fogli presi dalla cassetta della posta, li posava sul tavolo e sospirava. — Una volta era facile, andavi in posta e pagavi. Ora questi codici, le macchinette… Uno si perde. — Facciamo per ordine, — diceva Nadežda. — Questa è la luce, questa l’acqua. L’importante è non sbagliarsi. Sedevano così, sul tavolo di lei, con il tè e la marmellata fatti in casa. Lei guardava Stefano sistemare le bollette in pile ordinate, chiedere consigli, a volte contraddirla. — Non deve pagare tutto lei per me! — protestò lui una volta. — Ce la faccio da solo. — Ma io non anticipo niente, — ribatté lei decisa. — Lei mi dà i soldi, io solo aiuto. Non sia orgoglioso. Lui si sentì strano: gratitudine e imbarazzo insieme. Odiava dare fastidio, anche nelle piccole cose. A volte litigavano, senza gridare ma con amarezza. Una volta, tornando dal supermercato, parlarono dei figli. — Mio figlio dice: “Papà, vendi la casa e vieni da noi. Perché devi stare da solo?” Ma secondo lei vado a dormire sul loro divano? Già lì è tutto piccolo… E qui almeno ho le mie abitudini. — Anche a me mio figlio ha detto più volte: “Mamma vieni qui, ti facciamo la cameretta”. Hanno una casa grande. Ma io non mi decido mai. Qui ho la tomba di mio marito, le amiche… Anche se a volte penso che magari sarebbe giusto. — Ma cosa dice! — scattò lui. — Lì non servite più a nessuno. Tornano dal lavoro, sono stanchi, i figli hanno i compiti. Restate in un angolo. Ne ho viste tante. — E qui invece a chi servo io? — chiese lei piano. Lui restò zitto. Quel “qui” lo punse. Sembrava ci fosse dentro anche lui, nel discorso. Sentì salire irritazione. — Scusi, — borbottò. — Pensavo che noi… Non finì la frase. “Amici” gli rimase in gola. Alla loro età, suonava ridicolo. — Non intendevo lei, — disse lei con dolcezza, vedendo il suo imbarazzo. — Parlo in generale. Ma a volte penso che se me ne andassi, qui tutto si spezzerebbe. Fa paura. Lui fece cenno. Il resto del tragitto tacquero. Sotto casa, si salutarono freddamente e quella notte lui faticò ad addormentarsi, tormentato dall’idea di aver rovinato tutto. Passarono diversi giorni senza vedersi. Il tempo peggiorò, venne neve bagnata. Nadežda continuò lo stesso le sue passeggiate, ma di Stefano nessuna traccia. Cercò di non pensarci troppo, si disse avrà da fare, magari è solo influenzato. Eppure la preoccupazione restava. Al quarto giorno, tornando dal negozio, trovò un foglietto nella buchetta delle lettere: “Per la signora Nadežda Simonetti. Sono in ospedale. Stefano P.” Nient’altro. Le tremarono le mani. Entrò in casa, posò la spesa sullo sgabello, si sedette al tavolo e fissò quel foglio. Mille pensieri. Infarto? Chi l’ha aiutato? Nessuno ha chiamato? Si ricordò che lui le aveva menzionato una volta il reparto di cardiologia del “San Camillo” vicino alla piazza. Trovò il numero della segreteria e chiamò subito. Aspettò a lungo, poi finalmente le diedero nome e numero di stanza e la invitarono negli orari di visita. Nadežda odiava gli ospedali, quell’odore di disinfettante la inquietava. Ma il giorno dopo, allo scocco dell’orario, era davanti al reparto. Aveva comprato mele e qualche biscotto – si chiese se andava bene, magari gli zuccheri non poteva mangiarli. La stanza era tripla. Un signore anziano sotto la finestra, un ragazzo col braccio al collo vicino alla porta. Stefano stava nel letto di mezzo. Leggeva il giornale. Quando la vide si stupì, poi sorrise sinceramente sollevato. — Nadežda Simonetti! Come mi ha trovata? — Ho tirato il filo, — rispose lei, lasciando il sacchetto sul comodino. — Cos’è successo? — Mi ha preso il cuore di notte, — sospirò lui. — Ambulanza, e ora qui. Starò un po’. Lei lo osservò. Aveva il viso più chiaro, ombre scure sotto gli occhi. Ma negli occhi la stessa luce. — I suoi figli sanno qualcosa? — Mia figlia è venuta, ha portato la minestra. Al figlio ancora non dico nulla, non voglio agitare nessuno. Ne parlò con tono calmo, ma sentiva il nervosismo. Poi aggiunse, sottovoce: — Mia figlia tra l’altro mi ha chiesto chi fosse la signora che ha portato il messaggio. Ho detto che è una vicina che mi aiuta con le scartoffie. A lei quella cosa fece un po’ male. “Una vicina”, freddo, distante. Si sedette. — Vero, sono una vicina, — disse cercando di restare indifferente. — E aiuto con le faccende. Lui la guardò e improvvisamente capì che era stata una sciocchezza. — Mi sono espresso male, volevo dire… è che quando chiede, non so cosa rispondere. Se dico amica, subito pensa che chissà cosa. “Papà, non hai mica diciotto anni!” Pensano sempre che noi vecchi perdiamo la testa. — Ma noi non siamo giovani, — rise lei amaramente, — però siamo ancora persone. Lui annuì, nella stanza calò il silenzio. Il vicino fece finta di dormire. — Sa, mentre ero qui, ho avuto paura. Ma non paura di morire. Paura che se mi portano via, nessuno lo sappia. Rimani lì, guardi il soffitto, nessuno che chiama. I figli sono lontani, hanno i loro pensieri. E io ho pensato a lei. E mi sono sentito meno solo. Nadežda sentì salire il groppo in gola. Guardò il vaso con il fiore appassito sul davanzale. — Anch’io temo quella cosa. Solo che faccio finta di nulla con mio figlio, con i vicini. Poi la sera conto quante pillole mi restano e mi viene da ridere, pensa che scema. — Non è da scemi, — disse lui. — Conta anche a me. Si guardarono e sorrisero, complici e sollevati. Entrò la figlia di Stefano, una signora sulla quarantina, occhi simili ai suoi. — Ciao papà, ti ho portato il minestrone. E chi è la signora? Lui rimase tranquillo: — È la signora Nadežda Simonetti, una buona conoscente. Uscita e commissioni insieme. Mi aiuta per cose tipo le ricette e le bollette. — Buongiorno, — disse la figlia, gentile ma interrogativa. — Grazie d’aiutare papà, lui è testardo, vuole fare tutto da sé. — Facciamo quello che si può, — rispose Nadežda. La donna annuì e iniziò a sistemare. Nadežda si sentì di troppo e dopo poco salutò. — Tornerò a trovarla. — Quando vuole. Così, nei giorni dopo, Nadežda andò spesso a trovarlo. Portava frutta, giornali, un paio di calzini puliti. A volte parlavano, a volte restavano in silenzio, ascoltando solo il suono delle rotelle dei carrelli in corridoio. La figlia di Stefano ormai si era abituata alla sua presenza. Accompagnandola all’ascensore una volta le disse: — Grazie davvero. Io lavoro e non riesco a venire sempre. Fa piacere sapere che qualcuno tiene compagnia a papà. Solo, se c’è qualcosa di grave mi chiami, non si prenda tutte le responsabilità. — Ho i miei limiti, — rispose Nadežda, — Ho anch’io la mia vita. Ma finché posso dare una mano, lo faccio volentieri. Rimandarono Stefano a casa a fine aprile. Il medico lo obbligò a camminare di più, meno stress e le pastiglie sempre alla stessa ora. La figlia lo riportò in auto, gli sistemò la spesa. Il giorno seguente, con il bastone, fece la sua solita passeggiata verso il giardinetto. Nadežda già sedeva sulla loro panchina. Quando lo vide si alzò. — Allora, come va? — Vivo, e già basta. Si sedettero. Restarono in silenzio a lungo, poi lui disse: — In ospedale ho pensato tanto. Voglio dirle una cosa: non voglio essere un peso per lei. Da una parte ero contento che sia venuta, dall’altra mi vergognavo. Magari ha trascurato i suoi impegni per colpa mia. — Che impegni, — fece lei. — La spesa, il telegiornale, i telefilm… Non esageri! — Non voglio che si senta obbligata. Sono vecchio, ma so cavarmela. Lei lo guardò seria. — Crede che io voglia dipendere da qualcuno? Anch’io temo di essere un peso. Perciò cerco di fare da sola… Ma abbia capito una cosa: si può restare chiusi in casa a temere di dar fastidio a qualcuno, oppure ci si può mettere d’accordo. Senza promesse esagerate. Basta esserci, per quanto si può. Lui rimase un po’ in silenzio. — In che senso? — Ecco: lei non mi chiama di notte per parlare, io non sono il pronto soccorso. Ma se le serve la compagnia per l’ambulatorio, mi chiami. Se ha bollette da sistemare, venga pure. Se le serve qualcosa dal supermercato si arrangia, però: non sono una corriera. — Fermo e deciso! — rise lui. — Sincero, — puntualizzò lei. — E vale per entrambi. Se sto male e ho bisogno le dico. Ma non pretendo che lasci tutto e corra. Ha figli, nipoti… Lo rispetto, e lei faccia lo stesso con me. Lui annuì, liberato. — Affare fatto. Ognuno aiuta l’altro, ma niente infermiera e badante. — Esatto. Da quel momento la loro amicizia divenne serena. Passeggiavano, facevano la spesa ogni tanto insieme, andavano in ambulatorio, ma sapevano dove era il limite. Quando il miscelatore di Nadežda si ruppe, chiamò Stefano: — Può dare un’occhiata? Ho paura che scoppi tutto. — Posso vedere. Ma se c’è da smontare tutto chiamiamo il tecnico, ormai ho i miei acciacchi. Si misero a tavola nell’attesa, lui raccontava della sua gioventù, lei rifletteva che la vecchiaia è anche saper riconoscere quando da soli non si riesce più a far tutto. Ogni tanto andavano al mercato cittadino. Tra voci e bancarelle, Stefano trattava il prezzo delle patate, Nadežda quello del pollo. Tornando si lamentavano dei costi, ma sapevano bene che senza quella gita il giorno sarebbe stato molto più vuoto. Anche i figli reagivano a modo loro. Il figlio di Nadežda la chiamò una volta: — Mamma, parli sempre di questo Stefano Petrini. Chi è? — Un vicino, — rispose lei. — Mi aiuta col tablet, io con le bollette. — Attenta con soldi e documenti, oggigiorno non si sa mai. Lei sorrise. — Non sono nata ieri, stai tranquillo. Anche la figlia di Stefano lo avvisava. — Papà, non fare troppo affidamento sulla vicina, non è mica una badante. E poi chissà, magari ha le sue idee… — Abbiamo un nostro patto, — rispondeva lui. — Non ci sfruttiamo, ci aiutiamo. — Che patto? — Un patto fra vecchi, — scherzava lui. Arrivò l’estate. Il verde del giardino era in piena, le panchine affollate di mamme, ragazzi con le cuffiette, altri pensionati. Ma la loro panchina era ormai “quella di Nadežda e Stefano”, e loro si sedevano sempre lì, quasi a voler conservare un piccolo ordine in quel mondo caotico. Una sera, con la luce dorata del tramonto, guardarono insieme i ragazzini che giocavano a pallone. L’aria profumava di erba tagliata e terra polverosa. Stefano aggiustò la posizione del bastone sulla panchina. — Sa cosa ho capito? Prima pensavo che la vecchiaia fosse quando tutto finisce: lavoro, amici, passioni. Restano medicine e TV. Ora so che qualcosa può ancora cominciare. Non come da ragazzi, ma in un altro modo. — Parla di noi? — sorrise lei. — Anche. Non so come chiamarlo: amicizia, compagnia, farsi squadra nelle file. Però con lei… sto più tranquillo. Ho meno paura. Lei guardò le mani di entrambi: segnate, simili. — Anche io, — disse. — Prima di addormentarmi, pensavo: se domani non mi sveglio, chi se ne accorgerà? Ora so che almeno una persona si chiederà perché non sono venuta in giardino. Lui rise piano. — Non solo me lo chiederò: metto sottosopra tutto il palazzo! — E fa bene. Restarono ancora un po’, poi si alzarono e si incamminarono piano ciascuno dal proprio lato della strada. — Domani ambulatorio? — Sì, devo fare le analisi. Vieni con me? — Certo, ma solo fino alla sala prelievi, poi se resto mi succhiano il sangue a me! Lei sorrise. — D’accordo. Si salutarono e ognuno entrò nel proprio portone. Nadežda andò in cucina, pose la borsa, mise su il tè. Mentre l’acqua bolliva guardò fuori dalla finestra. Giù Stefano trafficava col portone del suo palazzo. Alzò lo sguardo, la vide, le fece cenno con la mano. Lei ricambiò. Il bollitore fischiò. Prese una tazza, il pane, si mise a tavola. La sciarpa di lana giaceva sulla sedia di fronte. Appoggiò la mano e si accorse che in quella quiete c’era qualcosa di diverso. Non era silenzio sordo, ora. Da qualche parte, oltre il cortile e i muri delle altre case, c’era qualcuno che domani l’avrebbe accompagnata all’ambulatorio, seduto con lei, pronto a chiederle come stava davvero. La vecchiaia non spariva certo: le articolazioni facevano male, le medicine erano da prendere con precisione, i prezzi salivano. Ma ora c’era un piccolo appoggio. Non un miracolo, non una salvezza. Solo un’altra panchina nella vita, dove fermarsi in due, riprendere fiato e andare avanti – ognuno coi suoi passi, ma fianco a fianco.