La Persona Vicina al Cuore

Non vuoi, non è? mi tirò per mano il nipotino tutto ricurvo, avvolto in un cappotto troppo grande per lui, Alessandro, che zoppicava sul posto mentre con laltra mano si sfiorava le labbra.

Io, Giovanni Trofimo, lo guardai di lato, stringendomi più forte al collo la sciarpa a quadri rossa e nera, lunga, di lana, ruvida, con un pompon che spuntava sempre davanti alla faccia di Alessandro quando mi chinavo a parlargli.

Quel pompon gli graffiava il viso, e adesso le ciocche di lana gli sollecitarono il visetto rosso per il freddo.

Alessandro fece una smorfia, si strofinò le guance con le dita e poi mi fissò con quegli occhi che sembravano due copie: uno piccolo specchio dellaltro.

Io vedevo molto, ma non volevo vedere di più; i miei occhi non piangevano, bruciavano solo di una rigida ostinazione, mentre quelli di Alessandro vedevano poco: la casa, la scuola dellinfanzia, a volte mi portava in una birreria dove, da compagni, chiamavo i miei amici. Quegli occhi piangevano silenziosamente, così da non suscitare rimproveri.

È, sussurrò il bambino.

È! sbuffai.

È, è

Ci eravamo fissati a lungo, mentre la neve continuava a cadere, coprendo di un manto bianco due anime care ma incomprensibili luna allaltra, se non fosse stata la signora Daria Nicolini, cuoca della mensa Tutti a tavola, che si avvicinò con le luci di una ghirlanda scintillante a destra dei due sfortunati commensali.

Gianni? gracchiò Daria, tosse forte. E che sciarpa, signore! Rosso, proprio come Babbo Natale!

Sì, è la mia da tempo, non mi staccare! brontolai, stringendo il naso contro il suo busto rotondo.

Ah, basta così. Hai di nuovo tirato fuori quel ragazzino? Non è più con sua madre? fece Daria, indicando Alessandro.

La madre è partita per un viaggio di lavoro, dissi, sbuffando. È qui solo per questo mese. Lha lasciato con me, la nostra Ludovica.

Ludovica è andata via, ha un incarico? Oh, Gianni, che secca! replicò Daria, spazzando via la neve dalla cuffia di Alessandro con una mano grossa coperta da un guanto di lana.

Mi ricordo la prima notte della nonna, sbottai, irritato. È passato tanto tempo dallultima volta che lho vista. Ha un figlio invalido, ma ne ha fatto un altro più forte, capito, Alessandino? feci spuntare un sorriso stanco. Alessandro scrollò le spalle. Non ho capito forse è meglio così.

Che importa, noi non giudichiamo, intervenne Daria, soffiando una nuvola di profumo di minestrina, polpette e qualcosa di dolce. Alessandro sentì il suo stomaco brontolare di nuovo.

Ecco, guarda, il giardino non è più accogliente, la ragazza Galia pensa di sparire, e lui è sempre in attesa. Lo porto a casa. Non lo nutro con biscotti, ma con pane. Il suo è, è mi fa impazzire. Se impara a dire cè, comprerò una pagnotta. Questo è il mio ordine! dichiarò Giovanni, aggrottandosi.

Daria lo osservò per un attimo, mordendosi il labbro inferiore, poi schiacciò con un colpetto il dorso spoglio di Giovanni, quasi a farlo vacillare.

Ecco il mio ordine: non lascerò un bambino affamato. E non è invalidità, è solo un ritardo. Lo supererà. Lo raggiungerai, Alessandro? annuì.

Alessandro lo guardò con gli occhi spalancati, sentendo un angolo di stomaco stringersi.

Allora venite con me alla mensa. Oggi è il mio giorno libero, la signorina Giulia copre per me. Cè posto per tutti! Venite, piccoli! esclamò Daria, facendo un gesto come se guidasse un plotone di soldati.

Noi non possiamo, è ora di tornare a casa, replicai, tirando un sospiro. Non ho voglia di perdersi nei corridoi altrui.

Meglio camminare lentamente verso casa, salire al terzo piano con Alessandro, e durante lascensore premere i pulsanti con il dito, facendo contare il nipote che si dimena, mentre io rimprovero il suo atteggiamento poco educato.

Alessandro smetterà di piangere, poi tornerà a dire il suo è, quel ragazzino muto

Così ci allontanammo, e Daria ci osservò con tristezza.

Voleva prendersi cura di qualcuno, non importava chi, scaldare, nutrire, coccolare. Non di me, ovviamente, non era il mio gusto! Ma di Alessandro, quel ragazzino spaventato

Linverno non finiva mai, Ludovica tornava da un viaggio allaltro, io continuavo a portare Alessandro al giardino, prendendolo, borbottando, tirando il cappotto, sistemando il cappotto con mani tremanti. Camminavamo, la scarpetta rossa di mio scialle brillava come un faro nella bufera di una città stanca. Daria li osservava andare e venire.

Un giorno, in un periodo particolarmente duro per me e per il nipote, Daria non ne poté più e lo portò nella sua mensa.

Dico che non andiamo! Torna a casa, Alessandro! Alessandro! sbuffò, tendendomi la mano.

Capivo però che eravamo arrivati a un limite; oltre cera solo tenebra e disperazione. Alessandro talvolta cercava la madre, annusava il suo cappotto nel corridoio, si rifugiava in esso. Il nonno lo temeva.

A volte Alessandro piangeva nel sonno, cercava qualcuno, io gli allungavo la mano, ma lui la respingeva.

La tua madre non ti serve! È al ristorante con un calice in mano, e tu qui a far la figura, sbottai furioso.

Immaginando di nuovo le sofferenze serali, accettai di andare da Daria al suo lavoro.

Ecco, Gianni! Che cè a casa? Ho una torta di mele! Andiamo! esclamò mentre apriva la porta. La mensa Tutti a tavola era piena, ma economica e saporita, come a casa. Il piatto era semplice: minestra, brasato, grano, insalata, composta. A volte servivano anche il risotto. Daria lo preparava con amore, anche se non in pentola, ma il risultato era sempre wow. Carote dolci, cipolla finemente tritata, riso separato, tutto lucido, burroso, con carne tenera.

Come vi sembra, ragazzi! Come vi sembra! esclamava Daria quando la ringraziavano.

Così era. Cucina come per la propria famiglia, con figli paffuti e un marito laborioso. Lasciava che lui bevesse un bicchierino di vino accompagnato da una sogliola salata, discutesse di politica e cantasse canzoni. Voleva tre figli, indipendentemente dal sesso, un piccolo nido di latte caldo.

Mai raccontò a nessuno perché fosse sola. Così viveva, su questa terra madre, tra donne come lei

Gli spettatori del locale guardavano luomo, il ragazzino e la cuoca, e qualcuno si inchinava in segno di rispetto al proprietario del bar.

Daria aprì la porta di una stanza di servizio, con due tavoli, un letto e un armadio. Entrate, Alessandro, il piccolo affamato! disse, sistemando una sedia per lui come per un orsetto. E per il nonno. Io rimango qui, forte come un cavallo, aggiunse, facendo un gesto con il pugno.

Io, controvoglia, mi spogliai, tremando. Avevo la febbre da giorni, le ossa mi facevano male, avrei voluto star a casa a bere tè con marmellata, mangiare una pagnotta e dormire. Poi arrivò Alessandro

Da quando la piccola Ludovica nacque, il padre, Giovanni, fu subito informato.

È caduta? chiese, accigliandosi. Non lhai vista?

No, non volevo uscire. Meglio non farla più, rispose Ludovica, infuriata.

Dai, andrà tutto bene! Alessandro! Alessandrino! chiamò il giovane medico accanto al lettino dove il bambino si agitava.

Ludovica capì che aveva partorito per sé, non per gli altri, e piangeva, ricordando il padre.

Ludovica? Che cosa? sussurrò Giovanni al telefono, dopo un anno e mezzo di silenzio, dopo una lite per il compleanno di sua figlia.

Lei lo aveva cacciato dalla festa, dicendo che lui le impediva di vivere.

Il padre se ne era andato, viveva in un appartamento ereditato, la madre di sua figlia era morta da tempo. Un giorno, indossando scarponcini nuovi con pelliccia, scivolò.

Quel pomeriggio dovevano andare al teatro per Lo Schiaccianoci, ma la ambulanza arrivò e la ragazza restò a casa, guardando mentre portavano via la madre. I biglietti furono buttati.

Da allora Giovanni odiava Lo Schiaccianoci, e Ludovica odiava il padre che non la lasciò entrare al Palazzo Reale.

Ludovica! Non capisci? Sua madre è morta! le disse il padre, stringendo una cravatta.

Ludovica, fredda al cuore, non si curava più di nulla, solo dei suoi doveri.

Le commissioni di Ludovica si susseguivano, e Giovanni accudiva Alessandro: la mattina lo portava al giardino, la sera lo faceva tornare a casa, lo lavava, lo pettinava, gli faceva una frittata per due. Mangiavano in silenzio, forchette che tintinnavano. Giovanni sorseggiava un bicchierino di vino, e il suo lato pedagogico si risvegliava.

Lavando i piatti, si sedeva con Alessandro sul divano, abbracciandolo, guardando Giovani episodio dopo episodio. Alessandro si annoiava a guardare ritratti sconosciuti, e Giovanni puntava con il dito piccoli dipinti, chiedendo al nipote di ripetere le parole.

Alessandro provava: guardava le labbra del nonno, le toccava, poi cercava di emettere suoni, ma sbagliava. Giovanni si arrabbiava, il giornale volava sul tavolo, Alessandro andava a dormire.

Amava davvero il ragazzo? Non lo sapeva. Forse lo amava senza comprenderlo, e non sapeva come aiutarlo.

Ragazzi, venite! Prendete il cucchiaio! entrò Daria con un vassoio di piatti, posandolo sul tavolo.

Il bambino si girò e iniziò a piangere.

Nel giardino, Galia Egorova, stringendo le labbra, cercava di introdurre un cucchiaio di zuppa in Alessandro. Il ragazzo si rigirava, Galia si lamentava.

Daria, però, si avvicinò, mise una sedia, si sedette e iniziò a mangiare. Io sentii il calore diffondersi dal mio corpo gelato, un profumo di alloro e cetrioli sottaceto.

Da quanti anni ti conosco, nonno? chiese Daria a Alessandro. Trentanni, vero? Abbiamo litigato, ci siamo riconciliati, mi ha persino invitato a sposarmi, sì, sì! Annunciò, facendo entrare un cucchiaio di zuppa nella bocca di Alessandro. Buono? Vedi, ti dico! Bisogna mangiare bene, Alessandro. Se non è buono non lo mangi. E bisogna vivere per essere felici.

Alessandro rispose: Ma dove trovi la felicità, se sono solo, senza mamma, e io non so come fare? Daria rispose con fermezza: La felicità è ovunque. Senza di essa è triste.

Alessandro aprì la bocca come un pulcino, allungò la mano verso il cucchiaio e, timidamente, accarezzò la spalla di Daria.

Scusa, mi sono distratta, disse Daria, riempiendo il piatto di più zuppa.

La minestra finì in fretta, poi venne una polpetta con sugo denso, purè su cui Daria disegnava faccine buffe, poi le spalmava di nuovo.

Il tè arrivò, con la classica torta di mele promessa, che Daria portava sempre quando veniva a far visita. Il marito di Gianni accettava le sue torte e pasticcini senza invidia, e Daria era amica del nonno.

Io amavo le sue crostate. La moglie di Giovanni non sapeva cucinare, accettava i dolci di Daria con gratitudine e non gli era gelosa.

A volte, Giovanni amava ascoltare Daria cantare. La sua voce bassa, profonda, riempiva la stanza, facendo vibrare il cuore di tutti. Io muggivo insieme a lui, e Alessandro ripeteva a malapena lultima frase di una canzone sul cavallo che correva nei campi di papaveri.

Il cavallo era come Alessandro: giovane, goffo, correva nella vita, lottava con le gambe, ma si impigliava, temeva.

Dopo aver finito, Daria li aiutò a vestirsi, poi, raddrizzandosi, disse:

Gianni, chiamami se ti serve qualcosa. Ti aiuterò.

Io annuii.

Qualche giorno dopo mi ammalai. Dopo cinque giorni mi svegliai e non riuscivo a alzarmi. Dovevo svegliare Alessandro, nutrirlo, portarlo allasilo, prepararmi per il lavoro, ma la tosse mi piegava, la nausea mi rovesciava, la notte mi colpiva.

Alessandro, avvolto in calzamaglie e maglioncino, mi guardò: Hai messo i vestiti, sussurrò. Io sorrisi: Alessandro, ti voglio bene, lo senti? Ti voglio davvero bene! Era la prima volta che lo dicevo apertamente.

Ehm non capisci? rispose lui, confuso.

Allora Alessandro si gettò sulle mie braccia, mi baciò il mento, mi strinse forte al collo. Io era tutto per lui: madre, padre, tutti.

Poi arrivò Daria, bussò alla porta, implorando Alessandro di aprire. La porta si aprì, e io, pallido, stavo lì.

Che cosa volete? ringhiò Daria. Chiamare aiuto? Sei un ipocondriaco! Ludovica ti farà uscire dal sepolcro, e anche io! disse, trascinando le borse in cucina.

Daria mi somministrò iniezioni dolorose, vergognose, nella zona più sensibile.

Alessandro girava lo sguardo verso la mia testa, accarezzandomi i capelli.

Non piangere, passerà! sussurrò Daria, mentre iniettava unaltra dose.

Io gemetti, poi ruggii, risi, e mi girai sul retro, afferrando il nipote e scuotendolo.

Mentì, fratello! Non piango! Che senso ha lamentarsi se ci sei tu! bisbigliò.

Alessandro, come se un interruttore si fosse acceso, iniziò a parlare: Ti amo, capito?

Capito, risposi, scrollando le spalle e piangendo di gioia.

Daria ci incitò a sorridere. Così fu. Il nipote, in piedi sul ponte del fiumeAlla fine, mentre la neve cadeva silenziosa sul tetto del nostro piccolo rifugio, capii che lamore di un nonno e la cura di una buona donna bastano a scaldare il cuore di un bambino affamato, chiudendo così il cerchio di una vita fatta di piccole grandi speranze.

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