Caro Diario,
Nella periferia di un tranquillo quartiere di Bologna, la vita quotidiana scorreva serena. Un luogo dove tutto doveva rimanere immutato: ordine, rispetto, nessun rumore superfluo. Qui vivevo io, Daniele Landi, vedovo e titolare di una piccola ditta di logistica, uomo rispettato in paese e sempre fiero di mia figlia.
Fiorenza, la mia bambina di dodici anni, frequentava la scuola secondaria n. 14. Un tempo era una ragazzina allegra, gli occhi lucenti, sempre pronta a scherzare. Negli ultimi tempi, però, è tornata a casa con lo sguardo abbattuto, l’uniforme stropicciata e lividi sulle braccia e sulle ginocchia. Il suo sguardo è diventato timoroso, la voce più flebile del solito.
«Mi sono solo scivolata, papà», diceva ogni volta, cercando un sorriso. «Non è nulla di grave».
Il cuore di un padre non si lascia ingannare: sentivo che non era vero. Qualcosa la tormentava, qualcosa di cui non riusciva a parlare. E non ero solo in questa preoccupazione.
«Piange in bagno», mi confidava Margherita, la tata che l’ha cresciuta fin da piccola. «Crede che non la senta, ma le fa davvero male. La sopporta in silenzio».
Da quel giorno ho iniziato ad incontrare Fiorenza alla porta di casa. Ogni sera, non appena entrava, le spalle si abbassavano come se potesse finalmente lasciarsi andare. I suoi passi rallentavano, la postura perdeva compostezza e lo sguardo si faceva pensieroso, quasi smarrito.
Ogni tentativo di parlare si chiudeva con la solita frase:
«Sto bene, papà».
Una sera ho notato lo zaino scolastico gettato vicino all’ingresso: una cinghia strappata, il fondo sporco, quaderni sgualciti e pagine sfocate. Sul cerniera c’erano macchie verdastre, come se lo avessero premuto sull’erba.
«Non è solo usura», ha osservato Margherita, passando il dito sulle macchie. «C’è qualcosa che non quadra…».
Quella notte, esausto per l’ansia, ho compiuto una mossa che non avrei mai immaginato: ho preso un vecchio microfono miniaturizzato dalla mia scrivania e l’ho cucito nella fodera dello zaino. Non volevo spiare, ma non avevo altro modo per scoprire la verità.
Il giorno dopo ho premuto “play”.
All’inizio solo rumori ordinari: risate nei corridoi, porte che sbattavano, chiacchiere scolastiche. Poi un tonfo ovattato, un sospiro trattenuto e, infine, un sussurro carico di paura:
«Non… non toccare…».
Il sangue è uscito dal viso, il cuore ha battuto all’impazzata. Non erano cadute accidentali, ma dolore reale.
Il secondo frammento ha frantumato le ultime illusioni. Quello che pensavo fosse la vittima era solo la superficie. Fiorenza non era una semplice vittima, né passiva.
Fiorenza… stava proteggendo gli altri. Senza urla, senza lamentele, senza lacrime. Silenziosa, con dignità.
«Basta. Lascialo stare. È la seconda volta», la sua voce suonava decisa.
«Lui l’ha iniziata», ha risposto uno dei ragazzi.
«Non è una scusa per attaccare. Basta».
Rumori di passi, un sospiro di sollievo e un sussurro di gratitudine:
«Grazie…».
«È meglio così, vai in classe», ha detto Fiorenza con calma.
Non ho trovato parole. Il mio respiro si è fermato. La mia figlia, così riflessiva, si poneva ogni giorno tra chi soffre e chi infligge il dolore, assorbendo i colpi per salvare gli altri.
Ho capito allora che non era un incidente: era la sua natura. Ho ricordato la mia defunta moglie, Alina, che una volta mi disse:
«Se qualcuno soffre, sii tu a notare. Stai lì».
Fiorenza aveva interiorizzato quelle parole. Già all’asilo ha consolato un bambino il cui orsacchiotto era caduto in un ruscello. In seconda elementare ha difeso una compagna che balbettava. Sempre vedeva chi gli altri preferivano ignorare.
Ora percepivo quanto fosse cresciuta quella sua inclinazione. Un intero cerchio di bambini la seguiva. Venerdì sera ho notato che non tornava a casa da sola: accanto a lei c’erano Luca, e le ragazze Marta e Nadia. Si sono fermati su una panchina vicino alla scuola, hanno tirato fuori i quaderni e discussero a voce bassa.
Più tardi ho trovato il diario di Fiorenza:
«Come aiutare Dario a sentirsi al sicuro durante la ricreazione»
«Chi cammina accanto ad Anita quando è triste»
«Parlare con Arturo affinché smetta di temere di parlare in classe».
Non era solo gentilezza, era un movimento consapevole, una direzione di vita.
Mi sono recato dal preside, Irene Bianchi, una donna severa e ordinata, evidentemente logorata dalle continue lamentele dei genitori.
«C’è un problema a scuola», ho iniziato.
«Sai, i bambini sono diversi», mi ha interrotto. «Non abbiamo segnalazioni ufficiali di bullismo».
«Mia figlia ha lividi perché ogni giorno difende chi è umiliato. Non è un’esagerazione, è la verità».
«Forse è troppo sensibile», ha sbuffato.
Sono uscito dall’ufficio con gli occhi brucianti, arrabbiato ma determinato: non avrei più guardato dall’altro lato. Avrei agito.
Qualche giorno dopo, nella cassetta della posta, è comparsa una nota scritta con la timida calligrafia di un bambino:
«La tua figlia è la persona più coraggiosa che conosca. Quando mi hanno chiuso nell’armadio del custode, pensavo che nessuno sarebbe venuto. Ma lei ha aperto la porta e ha detto: “Andiamo a casa”. Ora non ho più paura del buio, perché so che c’è lei».
Senza firma, solo un disegno di una mano aperta.
Quella sera ho mostrato la lettera a Fiorenza. È rimasta in silenzio a lungo, gli occhi lucidi. Ha tenuto il foglio con delicatezza, quasi temendo di perderlo.
«A volte mi sembra di fare tutto invano… che nessuno veda», ha sussurrato.
Mi sono avvicinato, la voce tremante di orgoglio:
«Conta, Fiorenza. Più di quanto immagini. È sempre stato così».
Il giorno dopo le hanno chiesto di parlare all’assemblea scolastica. Ha accettato, ma solo se tutti coloro che l’avevano sostenuta fossero lì con lei.
«Non siamo eroi», ha detto. «Siamo solo presenti quando fa paura. Se qualcuno piange, restiamo. Se non può parlare, lo facciamo noi. È tutto».
Il silenzio della platea è stato rotto da un fragoroso applauso. Insegnanti, alunni, genitori – anche i più indifferenti hanno ascoltato. Quel muro di silenzio ha iniziato a crollare.
I corridoi della scuola si sono riempiti di bigliettini anonimi: “Grazie”. Gli studenti si sono iscritti come volontari per diventare osservatori di gentilezza. Ho radunato un gruppo di genitori i cui figli erano cambiati, ma non sapevano ancora come.
Ora è chiaro: basta tacere.
La sera ci incontriamo, a volte a casa di qualcuno, a volte via videochiamata, condividendo storie, paure, speranze. Fiorenza non cerca l’attenzione, né ha bisogno di premi. Il suo sguardo rimane fisso su chi ancora non crede nella luce.
Con affetto,
Daniele.