Qualche giorno dopo il mio licenziamento, ancora non riuscivo a riprendermi. Era come se il mondo intorno a me si fosse fermato. Non cera più il mio camice bianco, né lodore di disinfettante, né il bip sommesso dei monitor quasi non mi riconoscevo più.
Sedevo davanti alla finestra, fissando il cielo grigio, ripetendomi sempre la stessa domanda: «Forse ho davvero sbagliato?»
Ma nel profondo lo sapevo: non mi pentivo di ciò che avevo fatto. Solo lingiustizia mi bruciava.
Una mattina, suonarono alla porta.
Sulluscio cera un uomo elegante, ben vestito. Cappotto stirato, volto rasato, uno sguardo sicuro. Nella mano, un mazzo di gigli bianchi.
«Lei è Marta Rinaldi?» chiese con garbo.
«Sì» risposi, confusa.
«Mi chiamo Luca Ferrara. La settimana scorsa ha aiutato qualcuno un senzatetto.»
Il mio cuore iniziò a battere forte.
«Sì come sta?» domandai con cautela. «È sopravvissuto?»
Luomo sorrise e annuì.
«Lei gli ha salvato la vita. Quelluomo era mio padre.»
Rimasi senza parole.
«Suo padre?» sussurrai.
Luca annuì e iniziò a raccontare. Suo padre era un imprenditore di successo, scomparso pochi mesi prima. Dopo un grave infarto, aveva perso la memoria, si era perso ed era finito per strada. La famiglia lo cercava disperatamente, senza successo.
«Se lei non lo avesse aiutato quel giorno» disse piano. «Il suo cuore non ce lavrebbe fatta. Ora è in una clinica privata e sta migliorando. E non fa che parlare di lei: Trovate quella infermiera che non mi ha abbandonato.»
Non sapevo cosa dire. Un nodo mi serrava la gola.
«Ma io sono stata licenziata» mormorai. «Per le regole.»
Luca sorrise.
«Ho già parlato con il primario. Domani mattina la riassumeranno. Anzi se vuole, le offriamo un posto nella nostra clinica di famiglia. Stipendio, condizioni quel che desidera. Basta che dica cosa preferisce.»
Le lacrime mi scesero da sole. Tutto ciò che credevo perduto, allimprovviso si era trasformato in un dono.
Il giorno dopo, tornai in ospedale. I corridoi familiari, i sussurri, gli sguardi curiosi. Questa volta, il volto del primario non era freddo.
«Signorina Rinaldi» disse con esitazione. «Credo di aver preso una decisione affrettata. Mi scusi.»
«Non cè rancore» risposi dolcemente. «Sono solo felice che sia finita.»
Una settimana dopo, lavoravo già nella clinica della famiglia Ferrara. Un edificio luminoso, spazioso, unatmosfera umana, non regole rigide ma fiducia. Per la prima volta, sentii che il mio lavoro aveva di nuovo un senso.
Un pomeriggio, mentre camminavo per il reparto, lo vidi. Pulisco, curato, con uno sguardo tranquillo. Quasi non lo riconobbi.
«Lei mi ha salvato la vita» disse, prendendomi la mano. «E io non lho ancora ringraziata.»
«Non cè bisogno di ringraziamenti» sorrisi. «Limportante è che stia bene.»
Tirò fuori una busta dalla tasca.
«Non è un compenso. Solo un grazie, un piccolo simbolo di ciò che ha fatto per me. Voglio che sappia che la gentilezza non svanisce mai, anche se il mondo a volte è ingiusto.»
Nella busta cera una lettera e un assegno una cifra importante. Ma più del denaro, contavano le poche righe che lessi:
«A volte infrangere le regole significa salvare il cuore di qualcuno. Grazie per non essere stata solo uninfermiera, ma un essere umano.»
Quella lettera la conservo ancora oggi.
Passarono alcuni mesi. Tornavo al lavoro sorridendo, ogni giorno con gratitudine nel cuore.
Un pomeriggio, mentre attraversavo il parco, vidi una ragazza china su un uomo era a terra, pallido, ansimante.
Mi avvicinai.
«Posso aiutarvi? Sono uninfermiera» dissi decisa.
La ragazza annuì tremando e insieme inizi





